Divorzio, assegno di mantenimento

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 30 maggio 2007, n. 12687

(Presidente Luccioli – Relatore Felicetti)

Svolgimento del processo

1. Q. C., con ricorso 20 ottobre 2000 al tribunale di Roma, chiedeva la modifica delle condizioni di divorzio stabilite con la sentenza n. 2795/91, revocando l'assegno divorzile posto a suo carico ed attribuito alla ex moglie B. C. ‑ pari a lire 1.281.000, rivalutabili annualmente secondo gl’indici Istat ‑ o quanto meno ridurlo, eliminando o riducendo l'ipoteca concessa a garanzia di detto assegno. La B., con autonomo ricorso depositato il 10 novembre 2000, chiedeva a sua volta l'aumento dell'assegno divorzile. Riuniti i ricorsi il tribunale, con decreto 25 febbraio 2002, riduceva l'importo dell'ipoteca a garanzia dell'assegno e rigettava tutte le altre domande di entrambe la parti. Avverso il decreto la B. proponeva reclamo, al quale resisteva il Q. proponendo a sua volta impugnazione incidentale. La Corte di appello, con decreto 29 gennaio 2004, notificato il 20 febbraio 2004, aumentava l'assegno divorzile ad euro 800,00 mensili, a partire dal gennaio 2001, confermando per il resto il decreto impugnato. Avverso il provvedimento della Corte di appello il Q. ha proposto ricorso a questa Corte ex art. 111 Cost., con atto notificato il 10 marzo 2004, formulando tre motivi. La parte intimata resiste con controricorso notificato il 27 aprile 2004 e memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 5 e 9 della legge n. 898 del 1970. Si deduce che la Corte di appello avrebbe errato, violando detti articoli, nel ritenere la sopravvenienza di motivi idonei a giustificare la modifica delle condizioni di divorzio nella successione ereditaria conseguente al decesso della madre di esso ricorrente, avvenuta il 24 maggio 2001, in quanto fatto prevedibile e rientrante nella normalità della vita familiare, come tale idoneo a influire sul tenore di vita prospettico dei coniugi e, quindi, anche sull'assegno dì divorzio. Secondo il ricorrente tale affermazione non sarebbe conforme al disposto degli articoli sopra indicati, che non consentirebbero di tenere conto, ai fini della riquantificazione dell'assegno di divorzio, di un'eredità sopravvenuta dopo dieci anni dal divorzio, e violerebbe anche l'art. 179 cod. civ., non rientrando i beni ereditari nella comunione legale fra i coniugi. Pertanto nessuna aspettativa successoria poteva avere la moglie divorziata sull'eredità materna del ricorrente, tenuto anche conto che l'art. 458 cod. civ. impedirebbe di nutrire aspettative sui beni di soggetti in vita. Si cita in proposito la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l'accertamento della spettanza dell'assegno di divorzio va effettuato con riferimento al tenore di vita «analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio». Tenore di vita al quale sarebbe estraneo l'apporto di beni ereditati dopo il divorzio, non influendovi ogni incremento reddituale o patrimoniale dei coniugi, ma solo quelli sui quali ciascun coniuge poteva fare ragionevole affidamento. In proposito il ricorrente sottolinea che con il divorzio il matrimonio si scioglie, e quindi la solidarietà economica fra i coniugi viene meno, cosicché mentre le successioni ereditarie intervenute durante la separazione sono idonee a determinare la modifica dell’assegno di separazione, non possono esserlo quelle che si verificano dopo il divorzio. La Corte, tenendo conto dell'eredità ricevuta dalla madre del ricorrente durante il giudizio di modifica delle condizioni di divorzio, e ritenendola fatto sopravvenuto idoneo a determinare la modifica dell'assegno di divorzio, avrebbe rideterminato tale assegno sulla base della valutazione comparativa delle condizioni attuali delle parti, mentre doveva tenere conto delle potenzialità economiche dei coniugi durante il matrimonio.

Il motivo è fondato.

2. Va premesso che l'orientamento di questa Corte, interpretativo dell'art. 9 della legge n. 898 del 1970, nel testo modificato dall'art. 13 della legge n. 74 del 1987, si è formato in correlazione con quello dell'art. 5 della stessa legge n. 898 del 1970, come modificato dall'art. 10 della legge n. 74 del 1987.

Secondo tale articolo, l'accertamento del diritto all'assegno di divorzio va effettuato verificando innanzitutto «l'inadeguatezza dei mezzi (o l'impossibilità di procurarceli per ragioni oggettive), raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio». L'assegno che sarebbe necessario per assicurare detto tenore costituisce l'assegno massimo liquidabile. La liquidazione in concreto dell'assegno, peraltro, ove sia ritenuto dovuto non essendo il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri soli mezzi detto tenore di vita, va compiuto, tenendo conto, sempre a norma dell'art. 5, delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutandoci tutti i su detti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Tali elementi funzioneranno normalmente come criteri di riduzione dell'assegno, come sopra stabilito, e potranno anche portare ad escluderlo. In particolare, dovrà tenersi conto dei comportamenti che hanno determinato la fine della comunione spirituale e materiale della famiglia, cosicché l'assegno per il coniuge che ne sia responsabile potrà essere ridotto, nonché della durata del matrimonio la quale, quanto più sia protratta, tanto più legittimerà la conservazione all'avente diritto del livello dì vita acquisito durante il matrimonio e quanto meno si sia protratta, tanto più ne legittimerà la riduzione (Cass. SS.UU. 29 novembre 1990, n. 11490, alla quale si è conformata, consolidandosi, la successiva giurisprudenza di questa Corte).

In correlazione a ciò si è tratta la conseguenza che la revisione dell'assegno in senso più favorevole all'avente diritto, prevista dall'art. 9 sopra citato per il sopravvenire "di giustificati motivi", è uno strumento volto ad assicurare all'ex coniuge, con riferimento all'assegno già liquidato, la permanente disponibilità di quanto necessario, nel tempo, per fruire di un tenore di vita adeguato alla pregressa posizione economico‑sociale, tenendo conto dei mutamenti in negativo e in positivo della situazione economica di ciascun coniuge.

La rilevanza dei fatti sopravvenuti va considerata, quindi, con riguardo alla su detta funzione dell'assegno divorzile e comporta una rinnovata valutazione comparativa della rispettiva situazione economica delle parti (Casa. 13 febbraio 2006, n. 3018). Con la specificazione che il tenore di vita al quale deve farsi riferimento, non è solo quello riconducibile ai mezzi economici che i coniugi avevano durante il matrimonio, ma anche alla sopravvenienza di miglioramenti di reddito «che si configurino come ragionevole sviluppo di situazioni e aspettative presenti al momento del divorzio» (Cass. 4 aprile 1997, n. 5720) e siano quindi rapportabili «all’attività all’epoca svolta, e/o al tipo di qualificazione professionale» dell'onerato (Cass. 28 gennaio 2000, n. 958; 8 gennaio 1996, n. 2273), ovvero, comunque, alla prevedibile evoluzione economica (Cass. 16 novembre 1993, n. 11326) delle attività svolte in costanza di matrimonio.

Ciò non implica che in sede di revisione dell'assegno di divorzio debba essere compiuta una nuova determinazione della misura dell’assegno sulla base di tutti i criteri indicati dall'art. 5 della l. n. 899 del 1970, in quanto il riferimento alla sopravvenienza dei giustificati motivi (contenuto nell'art. 9 della stessa legge) comporta la valorizzazione, unicamente, delle variazioni reddituali intervenute successivamente al divorzio (Cass. 26 novembre 1998, n. 12010) e, quindi, della loro idoneità a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il provvedimento attributivo dell'assegno (o con un precedente provvedimento di modifica), ferme rimanendo tutte le altre valutazioni compiute ai sensi del su detto art. 5 nella liquidazione dell'assegno.

Non si ravvisano ragioni per discostarsi da tale indirizzo interpretativo, che appare in linea con l'esigenza di tutela delle aspettative del coniuge economicamente più debole, sorte durante il matrimonio e pregiudicate dagli effetti della sua cessazione, alle quali la legge n. 74 del 1987 ha inteso dare particolare tutela.

In tale ottica interpretativa, come questa Corte ha già affermato (Cass. 28 gennaio 2000, n. 958), il legislatore, subordinando la revisione dell'assegno alla sopravvenienza di giustificati motivi nel senso sopra detto, non ha inteso stabilire un automatismo fra i miglioramenti della situazione economica del coniuge obbligato, successivi al divorzio, e l'aumento dell'assegno. Ciò, in primo luogo perché, ove la richiesta di modifica venga a fondarsi unicamente su tali miglioramenti, è necessario che si valuti se ed in quale misura il coniuge che richiede la rivalutazione dell'assegno possa ritenersi titolare di un affidamento a un tenore di vita correlato a detti miglioramenti, in relazione alla loro natura. In particolare, occorre accertare se detti miglioramenti siano rapportabili all'attività svolta, in costanza di matrimonio, o al tipo di qualificazione professionale dell'onerato.

Tra tali incrementi questa Corte ha già affermato (Cass. 18 marzo 1996, cit.) che non possono ricomprendersi i miglioramenti dovuti ad eredità ricevute dall'onerato dopo il divorzio, e questo collegio ritiene di dovere confermare tale indirizzo, risultando i relativi incrementi reddituali privi di collegamento con la situazione economica dei coniugi durante il matrimonio e con il reciproco contributo datosi nel corso di esso. Le aspettative ereditarie sono infatti, sino al momento dell'apertura della successione, prive, di per sé, di valenza sul tenore di vita matrimoniale e giuridicamente inidonee a fondare affidamenti economici. Con la conseguenza che, mentre le successioni ereditarie che si verifichino in costanza di convivenza coniugale, incidendo sul tenore di vita matrimoniale, concorrono a determinare la quantificazione dell'assegno dovuto dal coniuge onerato, quelle che si verifichino dopo non sono idonee ad essere valutate, sotto detto profilo, secondo i principi sopra indicati.

3. Nel caso di specie l'odierna resistente aveva richiesto la modifica dell'assegno di divorzio sia sotto il profilo del peggioramento della propria situazione economica, sia sotto il profilo del miglioramento di quella dell'ex marito, per avere egli ereditato alcuni beni immobili dalla madre. La Corte di appello ha respinto la domanda in relazione al dedotto peggioramento della situazione economica della ex moglie, ritenendo insussistenti le condizioni per accoglierla in relazione agli elementi allegati. L'ha accolta, invece, in relazione all'avvenuto miglioramento della situazione economica dell'ex marito in correlazione all'eredità ricevuta, respingendo implicitamente la domanda del coniuge onorato di soppressione o riduzione dell'assegno.

Con riferimento a tali statuizioni la Corte di appello dovrà pertanto rivalutare la situazione sulla base del principio secondo il quale «le successioni ereditarie ricevute dopo il divorzio dal soggetto onorato del pagamento di un assegno divorzile, in mancanza di un peggioramento della situazione economica del soggetto beneficiario dell'assegno, non sono idonee a giustificare l'aumento dell'assegno, concorrendo il relativo incremento patrimoniale unicamente nella valutazione della capacità economica dell'obbligato a pagare l'assegno già in atto».

Ne deriva l'accoglimento del primo motivo.

4. Con il secondo motivo si denuncia l'assoluta carenza di motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla conferma dell'importo dell'ipoteca a garanzia dell'assegno divorzile stabilito dal tribunale.

Anche tale motivo è fondato. La Corte di merito ha infatti omesso di valutare la censura formulata al riguardo dall'appellante, non avendo preso in considerazione la richiesta di riduzione dell'ipoteca, rispetto alla quale appare del tutto incongrua l'immotivata statuizione secondo la quale "l'ammontare dell'ipoteca, come determinato dal tribunale" è '"comunque sufficiente”.

5. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell'art. 112 cod. civ., per avere la Corte di appello omesso di statuire in ordine al motivo dell'appello incidentale con il quale si chiedeva la soppressione o la riduzione dell'assegno di divorzio, in relazione alla sopravvenuta invalidità di esso ricorrente ed alla riduzione dei suoi redditi, quali risultanti dalle denunce fiscali.

Deve ritenersi che la Corte di appello, accogliendo il gravame dell'odierna resistente B. C., abbia implicitamente rigettato la richiesta di soppressione o riduzione dell'assegno. L'accoglimento del primo motivo del ricorso per cassazione comporta peraltro l'assorbimento del motivo, dovendo la Corte di rinvio riesaminare, in relazione a detto accoglimento, l’intera situazione.

Vanno pertanto accolti il primo e il secondo motivo, con assorbimento del terzo, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte di cassazione accoglie il primo e il secondo motivo. Dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

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Cassazione civile, revocatoria ed allegazione

Cassazione – Sezione seconda civile – sentenza 23 aprile – 1 giugno 2007, n. 12849

Azione revocatoria – allegazione del decreto ingiuntivo – sufficienza – legittimità [art. 2901 c.c.]

Nel giudizio ex art. 2901 cc è suffíciente al creditore procedente l'allegazione d'un decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del preteso debitore per dimostrare la titolarità d'un credito merite­vole di tutela, in quanto già esaminato e ritenuto provato in sede monitoria, e la pendenza del giudizio d'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso il detto decreto né osta alla deC.toria d'inefficacia dell'atto pregiudizievole alle ragioni del creditore né, come pure evidenziato nella stessa sentenza, comporta la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c..

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 1 giugno 2007, n. 12849

(Presidente Elefante – Relatore Settimj)

Svolgimento del processo

La Banca di Credito Cooperativo di K. - premesso d'esser creditrice nei confronti d'A. B., F. B. e C. D., quali fideiussori della fallita Soc. "X.", della somma di £ 1.231.619.581 ed accessori, come da decreto ingiuntivo emesso dal Presidente del Tribunale di Brescia in data 20.7.91; di avere constatato che i debitori, con l'evidente scopo di sottrarre i propri beni alla garanzia del creditore ed all'azione esecutiva, in data 27.2.91 avevano venduto alla Soc. Y. due propri immobili; di ritenere la modestia del prezzo indicato nell'atto e la notorietà della situazione debitoria degli alienanti dimostrativi della consapevolezza in capo all'acquirente del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori - con citazione 6.12.95 conveniva innanzi al tribunale di Brescia i congiunti B.-D. e la Soc. Y. chiedendo dichiararsi l'inefficacia nei propri confronti dell'indicato atto di compravendita ex art. 2901 cc.

Contumace F. B., A. B. e C. D., nel costituirsi, contestavano la domanda evidenziando che il decreto ingiuntivo a base dell'avversa pretesa era oggetto d'opposizione pendente e che il credito della Banca era garantito da un'ipoteca volontaria accesa su altri loro immobili recentemente escussa con totale soddisfazione della creditrice.

Nel costituirsi a sua volta, la Y. contestava la sussistenza dei presupposti per l'azione revocatoria, con specifico riferimento all'eventus damni ed al consilium fraudis, allegando d'esser società immobiliare dedita da oltre un decennio alla costruzione e compravendita d'immobili; di avere avuto notizia nel 1991, da un proprio abituale mediatore, che la fraterna B. aveva necessità di vendere alcuni cespiti immobiliari pervenutile per eredità; di non aver avuto alcuna conoscenza delle pretesa situazione debitoria degli alienanti, noti in zona come facoltosi proprietari immobiliari, i quali, tra l'altro, sei mesi prima avevano concesso alla Banca una garanzia ipotecaria sulle loro considerevoli proprietà immobiliari, a copertura di un costituendo credito, fino a concorrenza di £ 500.000.000; di avere stipulato la compravendita anteriormente all'emissione del decreto ingiuntivo ex adverso invocato.

All'esito dell’istruttoria, l'adito tribunale, con sentenza 17.11.00, accoglieva la domanda, sulla considerazione che, ai fini dell'accoglimento dell'azione revocatoria, era sufficiente una ragione di credito anche eventuale e non accertata giudizialmente; che la garanzia reale costituita con l'ipoteca non aveva sostituito la fideiussione prestata dai B. per i debiti della Srl "X.", ma garantiva una nuova ed autonoma linea di credito sotto forma di conto corrente aperto il giorno successivo alla sua costituzione; che risultavano accertati sia l'eventus damni, in quanto alla compravendita in discussione s'era accompagnata negli stessi giorni l'alienazione anche degli altri beni residui non ipotecati, sia il consilium fraudis, in quanto, da un lato, detta compravendita era posteriore alla genesi del credito, da riferirsi non alla data del decreto ingiuntivo ma a quella dei saldi passivi dei conti correnti della S.r.l. "X." anteriori alla stipulazione, e, dall'atro, la consapevolezza negli stipulanti dell'attitudine della vendita a diminuire la garanzia patrimoniale degli alienanti con pregiudizio dei creditori era dimostrata, per i congiunti B., dalla conoscenza della situazione debitoria della garantita S.r.l. "X," e dalla contestuale vendita degli altri residui immobili liberi da ipoteca, per la Y. dalla sua qualità di operatrice nel mercato immobiliare e dall'acquisita conoscenza della contemporanea dismissione di tutti i cespiti immobiliari da parte dei venditori peraltro pattiziamente rimasti nel possesso degli stessi.

Avverso tale sentenza A. B. e C. D. nonché la S.r.l. Y. proponevano separati appelli ai quali resisteva la banca.

Ne decideva la corte d'appello di Brescia respingendoli entrambi, con sentenza 18.3.03, sulla considerazione della correttezza di statuizione e di motivazione dell'impugnata sentenza le cui argomentazioni, recependole, approfondiva.

Anche tale decisione è stata impugnata dalla Soc. Y., che ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Resiste la Banca, con controricorso seguito da memoria, mentre i consorti B. non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente ‑ denunziando violazione dell'art. 2901 cc con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c. ‑ sostiene la necessità da parte dell'agente in revocatoria di proporre domanda diretta all'accertamento del proprio credito e/o della sua qualità di creditore, onde, la Banca avendo fatto riferimento, a prova del proprio credito, esclusivamente all'azione monitoria tuttora pendente senza proporre nel presente giudizio domanda diretta all'accertamento del detto credito, non potrebbe dirsi accertata l'esistenza del credito garantito e sarebbero ininfluenti o comunque viziate da extrapetizione le affermazioni del giudice a quo afferenti la validità di una "fidejussione omnibus" anteriore alla legge 154/1992 ed al fumus di sussistenza del credito desunto da documenti prodotti in giudizio; così come l'affermazione per cui dalla giurisprudenza è esclusa la necessità che il credito dell'agente in revocatoria sia certo, liquido ed esigibile o, comunque, accertato preliminarmente in sede giudiziaria, sarebbe stata erroneamente intesa dallo stesso giudice come non necessità di una specifica domanda diretta all'accertamento della titolarità di una ragione di credito ed al conseguente relativo accertamento nel giudizio ex art. 2901 cc, ciò che si riverbererebbe nel difetto di prova dell'eventus damni e del consilium fraudis.

Il motivo è inammissibile, per novità della questione e difetto di specificità dell’argomentazione, ancor prima che infondato.

La prospettatavi questione della necessità d'una apposita domanda d'accertamento del credito da proporsi congiuntamente alla domanda ex art. 2901 cc, non ha formato, infatti, oggetto di trattazione nel giudizio d'appello, secondo quanto risulta dall'esame delle componenti essenziali dell'impugnata sentenza ‑ conclusioni delle parti riportate nell'epigrafe, motivi dell'impugnazione riportati all'inizio della motivazione, esposizione del fatto, motivazione ‑ contro la quale non è stata formulata alcuna specifica e rituale censura ex art. 112 c.p.c. per omesso esame della questione stessa.

Come ripetutamente evidenziato da questa Corte, infatti, l'omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, dev'essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'art. 112 c.p.c. e non già con la denunzia della violazione di norme di diritto sostanziale ovvero del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 24.6.02 n. 9159, 11.1.02 n. 317, 27.9.00 n. 12790, 28.8.00 n. 11260, 10.4.00 n. 4496, 6.11.99 n. 12366); perché, poi, possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall' altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo del giudizio di secondo grado nei quali l'una o l'altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività edí in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell'art. 112 c.p.c., ciò che configura un'ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere‑dovere del giudice di legittimità d'esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all'adempimento da parte del ricorrente, per il principio d'autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell'onere d'indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502).

Pertanto, poiché la questione dedotta con il motivo in esame non forma oggetto di censura per omessa pronunzia negli indicati termini, mentre introduce temi di dibattito completamente nuovi, implicando accertamenti in fatto non acquisiti agli atti e decisione su elementi di giudizio pure in fatto che non hanno formato oggetto di contraddittorio nella fase di merito, stanti la natura ed i limiti del giudizio di legittimità, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza impugnata in rapporto alla regolarità. formale del processo ed alle questioni di diritto nello stesso già proposte, non può essere presa in considerazione.

In proposito questa corte ha, infatti, avuto ripetutamente occasione d'evidenziare come i motivi del ricorso per cassazione debbano investire, a pena d'inammissibilità, statuizioni e questioni che abbiano già formato oggetto di gravame e che siano, dunque, già comprese nel thema decidendum del giudizio di secondo grado quale fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti, mentre non è consentita, a parte le questioni rilevabili anche d'ufficio, la prospettazione di questioni che modifichino la precedente impostazione difensiva ponendo a fondamento delle domande od eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nella fase di merito o questioni di diritto fondate su elementi di fatto nuovi o diversi da quelli dedotti in detta fase (e pluribus, Cass. 22.10.02 n. 14905, 16.9.02 n. 13470, 21.6.02 n. 9097, ma già Cass. 9.12.99 n. 13819, 4.10.99 n. 11021, 19.5.99 n. 4852, 15.4.99 n. 3737, 15.5.98 n. 4910).

L'esposta tesi è, comunque, errata.

Va, infatti considerato come, mentre non risulta affatto l'invocato principio giurisprudenziale per cui con la domanda ex art. 2901 cc debba essere anche chiesto l'accertamento giudiziale del credito (e tanto meno tale principio è affermato o desumibile da Cass. 24.2.00 n. 2104 citata in ricorso), le Sezioni Unite di questa Corte, risolvendo con sentenza 18.5.04 n. 9440 il contrasto verificatosi in materia di sospensione ex art. 295 c.p.c., abbiano ritenuto meritevole d'adesione la lettura estensiva della nozione di credito eventuale fino alla ricomprensione, quale fatto costitutivo della pretesa revocatoria, anche del "credito litigioso” in ragione della finalità di rafforzamento della tutela del creditore perseguita dall'art. 2901 cc.

Tale norma, infatti, se consente la tutela del titolare di crediti soggetti a condizione sospensiva e legittima, pertanto, mediante lettura estensiva della norma, l'equiparazione di tale situazione alla fattispecie nella quale la pretesa creditoria è destinata a concretizzarsi in dipendenza dell'evoluzione, secondo determinate previsioni normative, d'una situazione analoga, legittima altresì, in quanto costituisce solo una ulteriore progressione della medesima linea interpretativa, la riconduzione nella figura del credito eventuale anche della ipotesi del "credito litigioso", sia nel caso in cui questo tragga origine da un negozio e sia controverso, sia nel caso in cui tragga origine non da un negozio, ma da un fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, dedotto in giudizio a sostegno di una domanda risarcitoria.

Ne consegue che nel giudizio ex art. 2901 cc è suffíciente al creditore procedente l'allegazione d'un decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del preteso debitore per dimostrare la titolarità d'un credito merite­vole di tutela, in quanto già esaminato e ritenuto provato in sede monitoria, e la pendenza del giudizio d'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso il detto decreto né osta alla deC.toria d'inefficacia dell'atto pregiudizievole alle ragioni del creditore né, come pure evidenziato nella stessa sentenza, comporta la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c..

Con il secondo motivo, la ricorrente ‑ denunziando omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ‑ si duole che il giudice a quo sia pervenuto al convincimento circa la sussistenza del pregiudizio delle ragioni creditorie fatte valere dall'attore e della conoscenza di tale pregiudizio da parte dell'acquirente sulla base di elementi probatori oggetto di valutazione effettuata “in contrasto con le più elementari norme di ermeneutica negoziale e di logica giuridica e commerciale".

Il motivo non merita accoglimento sotto alcuno dei due prospettati profili concernenti, l'uno, l'interpretazione dei negozi e, l'altro, la valutazione delle risultanze probatorie.

Il convincimento espresso dal giudice a quo risulta, in effetti, raggiunto mediante lo svolgimento d'attività interpretativa in ordine ai vari negozi posti in essere dalle parti in causa nei loro molteplici rapporti.

Ne consegue che la ricorrente avrebbe dovuto prospettare ogni questione al riguardo, anzi tutto, in relazione all'attività ermeneutica posta in essere dal giudice a quo relativamente a ciascuno degli atti presi in considerazione nella motivazione della sentenza con puntuale riferimento ai singoli criteri legali d'ermeneutica contrattuale, e solo successivamente, una volta idoneamente dimostrato l'errore nel quale fosse eventualmente incorso al riguardo il detto giudice, avrebbe potuto procedere ad un'utile prospettazione delle ulteriori questioni d'erronea od inesatta applicazione d'altre norme ed istituti, dacché la disamina di tali questioni presuppone l'intervenuto accertamento dell'errore sull'interpretazione della volontà negoziale delle parti, e non può, pertanto, aver luogo ove manchi siffatto previo accertamento d'un vizio che inficerebbe, sul punto, ab opigine l'impugnata pronunzia, costituendo tale interpretazione il presupposto logico‑giuridico delle conclusioni alle quali il giudice del merito è pervenuto poi sulla base di essa (Cass. 21.7.03 n. 11343, 30.5.03 n. 8809, 28.8.02 n. 12596).

È ben vero che la ricorrente ha inteso in qualche modo censurare la valutazione degli atti de quibus effettuata dal giudice a quo ed ha, all'uopo, svolto argomenti in senso contrario, tuttavia, quand'anche vi si volesse ravvisare una, se pure irrituale, denunzia d'errore interpretativo, questa sarebbe, comunque, inidoneamente formulata ed insuscettibile d'accoglimento.

L'opera dell'interprete, infatti, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto o dichiarata nell'atto processuale, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d'ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 ss. cc, oltre che per vizi di motivazione nell'applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo, come già visto, fare esplicito riferimento alle regole legali ‑ d'interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito sia si discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.

Di conseguenza, ai fini dell'ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea ‑ anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente ‑ la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d'una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d'argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).

È, inoltre, necessario rilevare, sia pur solo ad abundantiam, come nel motivo in esame, con il quale s'imputa di fatto alla corte territoriale l'erronea interpretazione di più interconnesse convenzioni intervenute tra le parti, non siano ritualmente riportati i testi delle stesse (ma solo, e parzialmente, dell'una di esse), la correttezza o meno della cui interpretazione si richiede a questa Corte di valutare, ciò che costituisce un'ulteriore ragione d'ìnammissibilità del motivo, giacché, in violazione dell'espresso disposto dell'art. 366 n. 3 e 4 c.p.c., non vi si riportano proprio quegli elementi di fatto in considerazione dei quali la richiesta valutazione, sia della conformità a diritto dell'interpretazione operatane dalla corte territoriale, sia della coerenza e sufficienza delle argomentazioni motivazionali sviluppate a sostegno della detta interpretazione, avrebbe dovuto essere effettuata, in tal guisa non ponendosi il giudice di legittimità in condizione di svolgere il suo compito istituzionale(e pluribus, da ultimo, Cass. 9.2.04 n. 2394, 5.9.03 n. 13012, 6.6.03 n. 9079, 24.7.01 n. 10041, 19.3.01 n. 3912, 30.8.00 n. 11408, 13.9.99 n. 9734, 29.1.99 n. 802); non senza considerare, altresì, come l'impossibilità di rapportare le svolte censure in tema d'interpretazione della volontà negoziale delle parti all'esatto dato testuale nel quale quella volontà si è tradotta, ovviamente non surrogabile dalla lettura soggettiva datane dalla parte, comporti anche una violazione dell'art. 366 n. 4 c.p.c. sotto il diverso profilo del difetto di specificità del motivo.

In mancanza, dunque, d'un'adeguata impugnazione, nei sensi indicati, dei giudizi espressi dalla corte territoriale in ordine agli atti ed ai rapporti con gli stessi regolati, resta ineccepibile il consequenziale riconoscimento da parte dello stesso giudice della ricorrenza nella specie del presupposto di fatto legittimante l'accoglimento della domanda ex art. 2901 cc, giudizio operato in conformità ai fondamentali criteri legali d'interpretazione dettati dall'art. 1362, primo e secondo comma, cc e nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito, a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune da censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalle norme stesse.

Quanto, poi, al vizio di motivazione, unico in effetti formalmente dedotto e realmente sviluppato con il motivo, devesi considerare come la censura con la quale alla sentenza impugnata s'imputino i vizi di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. debba essere intesa a far valere, a pena d'inammissibilità comminata dall'art. 366 n. 4 c.p.c. in difetto di loro puntuale indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, per contro, essere intesa a far valere la non rispondenza della valutazione degli elementi di giudizio operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non si può con essa proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento degli elementi stessi, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell' apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma stessa; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe ‑ com'è, appunto, per quello in esame ‑ in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Né, com'è da tralaticio insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d'aver omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l'una né l'altra gli sono richieste, mentre soddisfa all'esigenza d'adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti - come è dato, appunto, rilevare nel caso di specie ‑ da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell'art. 132 n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell'adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.

Nella specie, per converso, le esaminate argomentazioni non risultano intese, né nel loro complesso né nelle singole considerazioni, a censurare le rations decidenti dell’impugnata sentenza sulle questioni de quibus, bensì a prospettare una valutazione degli elementi di giudizio in fatto difforme da quella effettuata dal giudice a quo e più rispondente agli scopi perseguiti dalla parte, ma ciò non soddisfa alla prescrizione dell'art. 360 n. 5 c.p.c., in quanto si traduce nella prospettazione d'un'istanza di revisione il cui oggetto,è estraneo all'ambito dei poteri di sindacato sulle sentenze di merito attribuiti al giudice della legittimità, onde le argomentazioni stesse sono inammissibili, secondo quanto esposto nella prima parte delle svolte considerazioni.

Non senza tenere, comunque, nel debito conto che, come già accennato, la motivazione fornita dal giudice a quo all'assunta decisione risulta adeguata e tutt'altro che incoerente, basata com'è su considerazioni del tutto condivisibili in ordine alla valenza oggettiva e logica attribuibile ai vari elementi di giudizio risultanti dagli atti istruttori sui quali il detto giudice ha ritenuto di potersi basare e su razionali valutazioni di essi, idonei gli uni e sufficienti le altre a giustificare il raggiunto convincimento; un giudizio, dunque, effettuato nell'ambito dei poteri discrezionali di valutazione del fatto attribuiti dall'ordinamento all'esclusiva competenza del giudice del merito ed a fronte del quale, in quanto riscontrato obiettivamente immune, per le esposte ragioni, dalle censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 n. 5 c.p.c., la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea, giusta i principali regolatori della materia, a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.

Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, il ricorso va, dunque, respinto.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 10.000,00 per onorari oltre ad accessori di legge.