Uso legittimo delle armi da parte delle forze di polizia in caso di fuga

L’ART. 53 C.P. NEL SISTEMA DELLE SCRIMINANTI

Per meglio inquadrare la problematica che sottende alla pronunzia che si valuta ed al più complessivo contrasto interpretativo insorto, è opportuno qualche breve cenno sulla struttura dell’art. 53 c.p. e del sistema delle scriminanti in genere.

Recita la norma in oggetto sotto la rubrica uso legittimo delle armi:

“ Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'autorità.

La stessa disposizione sia applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza.

La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”.

Appare, prima facie, dalla lettura del testo di legge, di tutta evidenza l’osservazione che la disposizione portata dall’art. 53 c.p. sia stata concepita, all’interno del sistema delle condizioni che scriminano da responsabilità, come norma che si pone a complemento della legittima difesa e dell’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere [2].

L’elemento, che distingue marcatamente l’ipotesi dell’uso legittimo delle armi, dalla altre fattispecie esimenti codificate, è rinvenibile:

1. nel carattere di scriminante propria che l’art. 53 c.p. presenta, posto che l’operatività della stessa è circoscritta a pubblici ufficiali cioè a soggetti «legalmente richiesti» ed a soggetti «comandati» ;

2. nella dizione letterale stessa della norma che prevede una preliminare clausola di riserva nell’introduzione dell'art. 53 c.p. dove si legge: «Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti ...» [3].

La concezione che sottende da siffatta previsione permette di affermare con sicurezza che se il pubblico ufficiale si trovi ad operare in una situazione nella quale siano rinvenibili alternativamente i requisiti dell'adempimento del dovere o della legittima difesa, la questione dovrà venire risolta applicando le rispettive disposizioni e non quella dell'art. 53 c.p.;

3. nell’evidente e consequenziale carattere di sussidiarietà che lega, pertanto, l’art. 53 c.p., se posto in rapporto con le altre scriminanti di cui agli artt. 51, 52 c.p..

In relazione all’adempimento del dovere, il tratto saliente che balza all’evidenza è il profilo di specialità che l’uso legittimo delle armi assume rispetto all'art. 51 c.p..

L'elemento, che traspare come specializzante, è quello per cui il concetto di adempimento del dovere presuppone l‘ipotesi di uso delle armi o di altro mezzo coattivo di natura fisica quale reazione dovuta e necessitata ad un’azione che si sviluppa come illegittimamente opposta all’Autorità e si manifesta come munita di profili di resistenza o violenza, sicchè la esimente di cui all’art. 51 c.p. troverà ambito operativo in assenza di resistenza o violenza.

La legittima difesa, invece, per il proprio carattere di scriminanti comune ben può, a differenza della disposizione dell’art. 53 c.p., essere configurabile a favore di chiunque.

Si osserva, poi, in dottrina, che “la legittima difesa esprimerebbe una facoltà, mentre nell'uso legittimo delle armi vi è un obbligo del pubblico ufficiale che non avrebbe facoltà discrezionale”. [4]

Infine, per la legittima difesa si esige il pericolo attuale di una offesa ingiusta, dal quale si prescinde per l'uso legittimo delle armi, ma, soprattutto, l’azione reattiva che viene prevista dall’art. 53 c.p. – a differenza di quella contenuta nella norma di cui all’art. 52 c.p. che si dirige esclusivamente verso il singolo aggressore – può essere indirizzata nei confronti di una pluralità di assalitori.

Esauriti i parallelismi sin qui svolti con le altre cause di non punibilità, si deve concludere nel senso che il ricorso al mezzo di coazione fisica di possa ritenere giustificato anche quando le conseguenze letali possano ricadere su vittime innocenti, se sia dimostrata la sussistenza delle seguenti condizioni:

1. i mezzi della coazione (le armi da utilizzare devono essere quelle indicate nelle disposizioni di servizio e, comunque, riferite strumentalmente all'adempimento del dovere) [5];

2. il fine di adempiere un dovere dell'ufficio (il requisito del fine di adempiere il dovere dell'ufficio deve essere interpretato nel suo significato più proprio di elemento psicologico che caratterizza la direzione finalistica della volontà) [6];

3. la necessità (il requisito della necessità va considerato sulla base del rapporto che si instaura fra necessità ed inevitabilità, per cui soluzione naturale è quella per la quale il pubblico ufficiale deve porre in essere la condotta che risulti meno dannosa e parimenti appaia utile al raggiungimento dello scopo);

4. la proporzione (la proporzione rappresenta un requisito dell'uso legittimo delle armi, ancorché non espressamente enunciato, in quanto implicitamente contenuto nell’art. 53 c.p.) [7].

L’USO DELLE ARMI NEI CONFRONTI DI CHI FUGGA

E’ questo il punctum dolens, la terminazione nervosa tuttora scoperta del problema che la sentenza in commento affronta.

Sulla questione specifica, la giurisprudenza si è mostrata particolarmente ondivaga, risentendo, molto probabilmente di situazioni contingenti – di natura politico/criminale – che hanno condizionato, in un senso e nell’opposto, le modalità di approccio all’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine.

Questa mutevole e contraddittorietà sensibilità giuridica non ha fatto altro che complicare – e non poco – le idee dei giuristi.

Va, infatti rilevato che negli ultimi anni, (ponendo al riguardo come caposaldo temporale l’inizio del nuovo secolo) ed a tutt’oggi, la giurisprudenza non ha mai invocato la necessità di addivenire a tratti definitori la nozione di resistenza o di violenza attiva o passiva, in quanto i giudici più volte hanno asserito che nessuna differenza fra le due fattispecie appariva sul punto importante.

Veniva, infatti, attribuito (Cfr. Cass. pen. Sez. IV, 07-06-2000, n. 9961 , Brancatelli, Riv. Pen., 2000, 1140) rilievo decisivo al solo criterio della proporzionalità fra i contrapposti interessi, spostando, dunque, l’ago della bilancia ed il faro dell’attenzione più su di un carattere, comune alla legittima difesa, piuttosto che su di uno di quegli argomenti – la portata della condotta violenta dell’aggressore – che, invece, sarebbero sembrati peculiari all’istituto in parola [8], per potere inferire da tale elemento una legittimazione del soggetto reagente (appartenente alle forze dell’ordine) a ricorrere all’uso delle armi.

Non lascia, poi, adito a dubbi una pronunzia della stessa Sez. III della S.C., in data 13-10-2003, n. 15271 , Bravi c. Min. Interno, (in Mass. Giur. It., 2003, Arch. Civ., 2004, 966, Contratti, 2004, 6, 594, Gius, 2004, 1002) che affermò che “Il giudice civile nell'accertare, in un giudizio di risarcimento danni, l'esistenza della scriminante dell'uso legittimo delle armi con esclusione dell'ingiustizia del danno, non può escludere in assoluto l'esistenza della scriminante in presenza della fuga del soggetto nei cui confronti il pubblico ufficiale è tenuto ad adempiere al dovere d'ufficio, essendo necessario procedere alla valutazione delle modalità con cui la fuga è stata realizzata da valutare con il criteri della proporzione tra i contrapposti interessi”.

In tale occasione, dunque, sia assumeva che il concetto di fuga, seppure con accortezze interpretative, concernenti le modalità dell’azione del fuggitivo, non si poneva come elemento di esclusione dello spettro di operatività estrinseca della scriminante in questione.

Il concetto testè espresso trovò piena ed imprevista espansione con la sentenza, 2-05-2003, n. 20031 pronunziata dalla. Sez. IV, Ric. Fusi, (in Riv. giur. Polizia, 2004, 185), la quale giunse addirittura ad affermare che “L’art. 2 n. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 4 novembre 1950, immediatamente e direttamente applicabile in Italia essendo norma comunitaria, prevede l’uso legittimo delle armi contro l'autore di un delitto al fine di arrestarlo, anche se quello sta fuggendo. Ne consegue che non risponde ne di omicidio ne di lesioni, anche a titolo di eccesso colposo il carabiniere che spara a rapinatori in fuga dopo una rapina in banca”.

La sentenza che precede, pur oggetto di critiche da parte di un’attenta dottrina che sostenne come la pur condivisibile conclusione della Corte, apparisse “sembra frutto di un grave equivoco dal punto di vista giuridico nella parte in cui vi si afferma la diretta ed immediata applicabilità della norma citata in quanto norma del diritto comunitario” [9], affermò tra l’altro che “…qualora si verifichi un evento più grave di quello voluto, ciò rientra nel rischio insito nell'uso delle armi da parte del pubblico ufficiale, e di conseguenza non può essere posto a carico del medesimo. L'esimente putativa dell'uso legittimo delle armi può ravvisarsi, secondo una valutazione ex ante, quando l'agente abbia ritenuto per errore di trovarsi in una situazione di fatto tale che, ove fosse stata realmente esistente, egli sarebbe stato nella necessità di fare uso delle armi.”

Si trattò, pertanto, di una della massime manifestazioni dell’ampiezza del potere di utilizzo delle armi, da parte dei membri delle forze dell’ordine, in quanto veniva ripresa e sancita la centralità del principio di proporzione o di bilanciamento degli interessi, visione che trovò consensi quasi unanimi in dottrina [10] nel cui ambito spiccò la posizione del Pulitanò, il quale acutamente rilevò la funzione di correttivo che la proporzionalità assume, carattere che «è tanto più sentito come necessario, quanto più le situazioni legittimanti l'uso delle armi vengono estese verso la resistenza passiva».

La prospettiva di incidenza ed utilizzo del criterio di proporzionalità , nell’ambito della scriminante di cui all’art. 53 c.p. venne, così, a coincidere con quei parametri applicativi, riguardanti i beni in conflitto, ossia il valore dei diversi interessi contrapposti, espressamente previsti dal legislatore negli artt. 52 e 54 c.p., anche se la valutazione specificatamente richiesta in relazione al detto criterio non può concentrarsi solo sulla legittimità dell'uso dell'arma in sé, ma deve abbracciare anche la graduazione di questo uso, fra quelli possibili, “tenendo comunque presente che al pubblico ufficiale, il quale si trovi in una situazione che imponga l'adempimento del dovere, non è riconosciuta - come invece nel caso della legittima difesa o dello stato di necessità - un'opzione di rinuncia o di commodus discessus[11].

Ciò premesso, interviene il recupero della nozione di fuga, anche se appare fondamentale l’esame del livello e della tipologia dell’azione del fuggitivo, che secondo la citata sentenza Fusi – per il S.C. - , soprattutto «quando tali modalità siano tali da porre a repentaglio l'incolumità di terze persone, l'uso delle armi, opportunamente graduato secondo le esigenze del caso e sempre nell'ambito della proporzione, è legittimo, sempre che non sia possibile un altro mezzo di coazione, di pari efficacia ma meno rischioso».

Principio questo fatto proprio anche dal Tribunale di Bari, con la sentenza 22-01-2004, occasione nella quale si sostenne che “Non sussiste eccesso colposo nell'uso legittimo di armi nel caso in cui tale uso sia posto in essere, in luogo sicuro per l'incolumità di terzi, al fine di arrestare la pericolosa condotta del conducente di un'autovettura in folle corsa che abbia messo a repentaglio pedoni ed altre autovetture in circolazione, senza arrestarsi alle intimazioni d'alt dei militari intervenuti. “

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

In questo contesto, dunque, la sentenza che si commenta, si impone come momento di rottura rispetto alle visioni imperanti e come espressione di un ritorno ad una visione della problematica in oggetto, maggiormente articolata, all’interno della quale risultano pregnanti le distinzioni fattuali e giuridiche che intercorrono fra resistenza attiva e resistenza passiva.

Nella fattispecie in disamina, infatti, il S.C. conferma la posizione assunta dai giudici di merito, i quali hanno distinto l’intervento del carabiniere (imputato) in due differenti fasi temporali, sottolineando come il ricorso all’uso delle armi sia avvenuto in un momento successivo alla cessazione di uno stato di opposizione e resistenza attiva del soggetto all’atto in compimento da parte dell’agente.

La Corte, quindi, evidenzia come la giustificazione della disposizione dell'art. 53 c.p. riposi nella necessità di consentire al pubblico ufficiale l'uso delle armi al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, e “…considera legittimo l'uso dell'arma solo in presenza della necessità di respingere una violenza o superare una resistenza attiva.”

Appare, pertanto, lapidario ed in equivoco l’insegnamento offerto dal Supremo Collegio, in quanto esso postula che l’uso delle armi configuri una risposta dell’agente, assimilabile all’impiego della forza fisica o morale, e, quindi, non sia perciò configurabile nel caso di fuga, che realizza solo una resistenza passiva, se non effettuata con modalità che mettano a repentaglio l'incolumità del terzo.