Delitto preterintenzionale: l'elemento psicologico è dolo misto a colpa

Lo ha stabilito la Sezione Prima Penale della Cassazione con la sentenza n. 19611 dell'8 giugno 2006.

Con riguardo alla problematica relativa al criterio differenziale dell’omicidio preterintenzionale rispetto al dolo omicidiario tipico ex articolo 575 c.p. il Collegio rileva che nell’omicidio preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo ed uno negativo, la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza dell’intenzione di uccidere, al contrario, l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario é proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima.

(Altalex, 7 dicembre 2007. Si veda il diverso orientamento di Cass. pen., sez. V, sent. 13673/2006. Si rimanda all'articolo dal titolo "C’è ancora spazio per il delitto preterintenzionale?" di Luca D'Apollo)



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

Sentenza 8 giugno 2006, n. 19611

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 16 giugno 2004 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cosenza dichiarava G. G. responsabile del delitto di omicidio volontario, commesso in Cosenza l’8 novembre 2002 in danno della convivente T. C. ed, esclusa l’aggravante della premeditazione e concesse le circostanze attenuanti generiche, applicata la diminuente per il rito abbreviato, lo condannava alla pena di anni quattordici di reclusione, nonché alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la durata della pena.

La Corte d’assise d’appello di Catanzaro, con sentenza del 16 giugno 2005, riformava la decisione di primo grado limitatamente alla determinazione della pena, che riduceva ad anni dodici di reclusione, confermando per il resto la precedente statuizione.

Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, G., il quale, anche mediante motivi nuovi, lamenta:

a) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, dovendo il fatto essere qualificato come omicidio preterintenzionale e non volontario;

b) mancanza e manifesta illogicità della motivazione, tenuto conto dell’impossibilità di conferire valore di piena prova all’alibi rivelatosi infondato, della patologia psichiatrica da cui è affetto l’imputato, tale da inficiare la valenza della sua confessione, della inattendibilità delle dichiarazioni rese dal minore, affetto da ritardo mentale, e della incompatibilità tra le dichiarazioni rese da quest’ultimo e le risultanze medico legali, dell’omessa valutazione della testimonianza di Benvenuto che ha escluso la presenza in loco dell’auto di B. la sera del fatto.

Osserva in diritto

Il ricorso non è fondato.

1. Con riferimento al primo motivo di censura il Collegio osserva quanto segue.

1.1. Il più stretto nesso psichico fra l’agente e il fatto é espresso dall’elemento del dolo, che secondo l’articolo 42, comma 2, c.p. costituisce l’archetipo dell’imputazione soggettiva per l’attribuzione della responsabilità nella configurazione delle singole fattispecie incriminatici.

Dalla definizione che di esso offre il successivo articolo 43, comma 1, c.p. si evince che la struttura del dolo risulta normativamente caratterizzata non solo dall’elemento di natura intellettiva della previsione/rappresentazione, ma anche dall’ulteriore dato della volizione dell’evento.

Per quanto riguarda in particolare l’aspetto della condotta, si avverte che, se per i reati a forma vincolata oggetto del dolo é la condotta specificamente descritta nella norma incriminatrice, nei reati a forma libera e cioè nelle fattispecie casualmente orientate in cui il legislatore pone l’accento con espressioni come “cagionare”. “determinare” e simili, piuttosto che sul tipo di azione, sulla produzione di un certo tipo di risultato naturalistico, la possibilità di imputare a titolo di dolo il fatto nel suo insieme postula che sia effettiva la volontà dell’ultimo atto causalmente idoneo a produrre l’evento.

Che la rappresentazione e la volizione debbano in realtà avere ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica condotta, evento inteso in senso naturalistico e nesso di causalità materiale e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta lo si desume chiaramente, d’altra parte, dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta nel primo comma dell’articolo 47 c.p., secondo cui siffatto errore, facendo venire meno il dolo sotto il profilo della indispensabile consapevolezza degli elementi essenziali della fattispecie, esclude la responsabilità dolosa e la punibilità dell’agente.

Costituisce, invero, consolidata affermazione nella giurisprudenza di legittimità (cfr., da ultimo, Cassazione, Sezione prima, 19.11.1999, Denaro, riv. 215521; 1, 11.2.1998, Andreotti, riv. 211534; 20.10.1997, Trovato, riv. 208933; Sezione sesta, 10.5. 1994, Nannarini, riv. 200940) quella secondo cui, in tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi “diretta” e non “eventuale” la particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo “alternativo”, che sussiste allorquando l’agente, al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, si rappresenta e vuole indifferentemente e alternativamente che si verifichi l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno o dell’altro evento, egli risponde per quello effettivamente realizzato.

Il dolo eventuale, invece, è caratterizzato dal fatto che chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, o anche la semplice possibilità che esso si verifichi e ne accetta il rischio.

Questa Corte ha poi costantemente affermato che la sola presenza fisica di un soggetto allo svolgimento dei fatti non assume univoca rilevanza, allorquando si mantenga in termini di mera passività o connivenza, risolvendosi, invece, in forma di cooperazione delittuosa, allorquando la medesima si attui in modo da realizzare un rafforzamento del proposito dell’autore materiale del reato e da agevolare la sua opera, sempre che il concorrente morale si sia rappresentato l’evento del reato e abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell’autore materiale (Sezione prima, 11. 10.2000, ric. Moffa, riv. 217347; Sezione 1, 11.3.1997, ric. Perfetto, riv. 207582).

Pertanto, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, il secondo può manifestarsi pure in forme che agevolino la condotta illecita, anche solo assicurando all’altro concorrente stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa (Sezione sesta, 3.6.1994, ric. Campostrini, riv. 199162; 4.12.1996, ric. Farniano, riv. 206786).

La circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizza ione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pure prevista dall’articolo 110 c.p., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (Su, 45276/03, ric. Pg in proc. Andreotti, riv. 226101).

1.2. Relativamente alla doglianza riguardante l’erronea qualificazione giuridica del fatto come omicidio volontario (articolo 575 c.p.) piuttosto che come omicidio preterintenzionale, il Collegio osserva quanto segue.

A norma degli articolo 42 comma 2 e 43 comma 1 c.p. il delitto é “preterintenzionale o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”: elemento costitutivo della preterintenzione é dunque la volontà dolosa del fatto meno grave, cui faccia seguito, sul piano causale rispetto alla condotta criminosa, la realizzazione di un evento necessariamente non voluto (neppure nella forma del dolo eventuale o indiretto, perché altrimenti si verserebbe in altra fattispecie più grave di reato), più grave di quello perseguito.

In giurisprudenza esiste una duplicità di indirizzo in ordine al problema se con tale modello di responsabilità si delinei un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva ovvero di dolo misto a colpa.

Il dominante indirizzo dottrinale e il prevalente orientamento giurisprudenziale, formatosi quest’ultimo attorno al prototipo dell’omicidio preterintenzionale, ricostruiscono la fattispecie preterintenzionale come ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva: il primo è riferito al reato base e la seconda all’evento più grave non voluto, che resta, peraltro, del tutto estraneo alla proiezione dell’elemento volitivo e viene ascritto all’agente sulla base dell’accertamento del semplice nesso di causalità materiale con la condotta intenzionalmente diretta alla realizza ione di un evento diverso e meno grave, quindi in base al criterio d’imputazione della responsabilità oggettiva.

Alla stregua di questa concezione si prescinde da ogni indagine di carattere psicologico sulla volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità dell’evento.

Questa linea interpretativa, peraltro, determina problemi d i coerenza costituzionale e sistematica, in quanto non pare compatibile con l’insegnamento offerto dalla Corte costituzionale in tema di “colpevolezza “ (v. sentenza 364/88).

La Consulta ha, infatti, affermato che «[..] é da confermare che si risponde soltanto per il fatto proprio, purché si precisi che per fatto proprio non s’intende il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore, dal mero nesso di causalità materiale, ma anche e soprattutto dal momento subiettivo costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla colpa in senso stretto ... Va precisato che, se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle quali anche un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non é coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente c.d. responsabilità oggettiva spuria o impropria il comma 1 dell’articolo 27 Costituzione non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva. Diversamente va posto il problema per la cosiddetta responsabilità oggettiva pura o propria ... Ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva pura alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta in volta a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere coperti almeno dalla colpa dell’agente, perché sia rispettata la parte del disposto di cui all’articolo 2 7 comma 1 Costituzione relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto [..]».

La Corte osserva, inoltre, che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per l’evento più grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità, sarebbe incoerente con il regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravatrici di cui all’articolo 59 comma 2 c.p., modif. dall’articolo i legge 19/1990.

Secondo un diverso orientamento dottrinale e giurisprudenziale l’elemento psicologico del delitto preterintenzionale deve essere ravvisato nel dolo misto a colpa, riferito il primo al reato meno grave e la seconda all’evento più grave in concreto realizzatosi, e, ai fini dell’imputazione, si deve verificare, di volta in volta, la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento maggiore (Sezione prima, 11055/98, ric. D’Agata, rv. 211611).

Questo indirizzo, ad avviso del Collegio, appare maggiormente coerente con il principio di colpevolezza e con i principi fissati dalla sentenza della Corte costituzionale 368/88, secondo cui deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli “elementi più significativi della fattispecie”, fra i quali il “complessivo ultimo risultato vietato” se non si vuole incorrere nel divieto ex articolo 27, commi 1 e 3, Costituzione della responsabilità oggettiva c.d. pura o propria.

L’alternativa sarebbe l’inquadramento dogmatico dei delitti dolosi lato sensu aggravati dall’evento necessariamente non voluto non più fra le figure autonome di reato, bensì fra le figure circostanziate, con la conseguente operatività per essi del descritto regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, introdotto dalla legge 19/1990 che ha novellato l’articolo 59 comma 2 c.p., e del giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti (Sezione prima, 11055/98, ric.D’Agata, cit.).

Con riguardo alla problematica relativa al criterio differenziale dell’omicidio preterintenzionale rispetto al dolo omicidiario tipico ex articolo 575 c.p. il Collegio rileva che nell’omicidio preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo ed uno negativo, la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza dell’intenzione di uccidere, al contrario, l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario é proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima.

Quando il complesso delle circostanze non evidenzia ictu oculi l’animus necandi, per le difficoltà di riconoscere per via diretta il proposito dell’agente, sorreggono il ragionamento fatti certi che consentono di provare l’esistenza o meno di altri fatti ignoti attraverso un procedimento logico d’induzione.

Costituiscono fatti indicativi della volontà omicida i mezzi usati, la direzione, l’intensità e la reiterazione dei colpi, la distanza dal bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta.

1.3. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi sinora enunciati, ravvisando nella fattispecie sottoposta al suo esame gli elementi costitutivi del dolo omicidiario ed escludendo di conseguenza la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale.

In tale ottica ha ritualmente valorizzato la partecipazione attiva di G. alla consumazione del delitto compiuto immediatamente dopo un litigio intercorso tra il ricorrente e la T. consistita nell’aggressione di parti vitali del corpo della donna, nel procacciamento dei mezzi necessari per la realizzazione dell’azione, nella rimozione e nella ricomposizione del corpo della vittima dopo I a precipitazione per le scale, nella sistemazione di taluni effetti personali indossati dalla donna all’interno dell’appartamento al fine di impedire la ricostruzione dell’accaduto e di simulare una caduta accidentale. A sostegno di tale conclusione sono state puntualmente richiamate le dichiarazioni rese dall’imputato in particolare nell’interrogatorio del 30 aprile 2004, la testimonianza di G. Francesco, gli esiti degli accertamenti medico legali, dai quali risultava che la morte era stata determinata da un’insufficienza cardio respiratoria terminale a genesi multifattoriale alla quale avevano contribúito con apporto causale vario le lesioni traumatiche contusive a livello della testa e del torace, l’azione di strangolamento e la probabile concomitanza di una crisi epilettica temporale.

2. Relativamente alla seconda doglianza difensiva occorre premettere, da un punto di vista metodologico, che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni.

Allorché sia denunciato con ricorso per cassazione vizio di motivazione del provvedimento impugnato, a questa Corte spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni poste a fondamento della decisione adottata, controllando la congruenza della motivazione, riguardante la valutazione degli elementi apprezzati rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano la valutazione delle risultanze processuali (Su, 11/2000, riv. 215828).

Il controllo della Corte di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento del giudice di merito, essendo inammissibile in sede di legittimità la prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile A) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sezione sesta, 3529/99, riv. 212565; 2050/96, riv. 206104).

Esula, pertanto, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Su, 6402/97, ric. Dessimone ed altri, riv. 207944; 19/1994, riv. 199391).

Il vizio di mancanza e/o illogicità della motivazione non può essere sindacato da questa Corte, quando non risulti prima facie dal testo del provvedimento impugnato, restando ad essa estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questioni di fatto (Sezione prima, 1700/98, riv. 210566).

L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento (Su, 24/1994, ric Apina, riv. 214794).

Dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Su, 16/1996, ric. Di Francesco, riv. 205621).

In sede di legittimità sono, quindi, rilevabili esclusivamente i vizi argomentativi che incidano sui requisiti minimi di esistenza e di logicità del discorso motivazionale svolto nel provvedimento e non sul contenuto della decisione (Sezione prima, 1083/98, riv. 210019).

In altri termini il controllo di questa Corte è diretto semplicemente ad accertare che a base della pronuncia esista un concreto apprezzamento delle risultanze e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da errori logico­giuridici; restano escluse da tale sindacato le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza dei fatti, la valutazione comparativa della loro rilevanza, la scelta di quelli determinanti.

2.2. Nel caso in esame la sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha diffusamente spiegato gli elementi su cui ha fondato l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato in ordine a delitti a lui ascritti e le ragioni per le quali essi non sono in alcun modo inficiati nella loro valenza dalle prospettazioni difensive, che peraltro ripropongono in questa sede rilievi già ampiamente apprezzati nel precedente grado di giudizio.

Il provvedimento impugnato, come del resto quello di primo grado, è pervenuto alla declaratoria di colpevolezza del ricorrente sulla base dei seguenti elementi: a) dichiara ioni confessorie rese da G. G., in particolare in data 30 aprile 2004, dalla quale risultava che l’omicidio era conseguente ad un litigio causato dai rimproveri della donna che non gradiva la presenza di B., amico del marito e che ad esso aveva attivamente partecipato il ricorrente, secondo quanto già in precedenza specificato, aggredendo la convivente in parti vitali del corpo, procurando i mezzi per la commissione dell’omicidio, rimuovendo e ricomponendo, dopo la precipitazione, il corpo della vittima sul pianerottolo delle scale con la schiena appoggiata alla parete, le gambe distese e la testa reclinata di lato, sistemando taluni effetti personali indossati dalla donna all’interno dell’appartamento al fine di impedire la ricostruzione dell’accaduto e di simulare una caduta accidentale; b) deposizione del figlio minore Francesco, teste oculare; c) accertamenti medico legali dai quali risultava un duplice meccanismo lesivo con forza causale concorrente, secondo quanto già in precedenza specificato; d) sequestro del giubbotto indossato dalla donna che presentava uno strappo all’altezza del collo; e) esito della perizia psichiatrica esperita sull’imputato che escludeva disturbi psicotici che potessero avere intaccato le funzioni psichiche ed il rapporto e il contatto con la realtà e con gli altri ed evidenziava solo una patologia di tipo frustrazionale e di tipo conflittuale, esitata in acting out (passaggio all’atto), di tipo violento, a direzione eterodistruttiva, la cui rilevanza psichiatrica forense era completamente nulla, non essendo connotata da una frattura evidente rispetto al peculiare stile di vita del soggetto e non emergendo in nessun caso la presenza di disturbi dispercettivi o di idee deliranti; f) il fallimento dell’abbi fornito per la sera del fatto da B., cui in separato procedimento è stato contestato il concorso con C. nell’omicidio della donna.

I giudici di merito sono pervenuti all’affermazione di penale responsabilità dell’imputato all’esito di una compiuta valutazione del materiale probatorio acquisito e dell’analisi dei rilievi difensivi (già prospettati in secondo grado e riproposti in questa sede), fornendo su ciascun profilo, compresi quelli valorizzati dalla difesa, una motivazione logica ed esauriente e pienamente rispondente ai principi giuridici in precedenza enunciati.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.