Danno da mancata manutenzione delle strade

1) La responsabilità extracontrattuale per la cattiva manutenzione di strade pubbliche.

a) Orientamento tradizionale. La Giurisprudenza ammette che la PA possa essere chiamata a rispondere per i danni subiti dall’utente a causa dell’imprudente o negligente cura della rete stradale. Infatti, anche se l’adozione delle misure di manutenzione rientra nell’ambito dell’ insindacabile discrezionalità dell’ente, l’osservanza di specifiche norme o delle comuni regole di diligenza poste a tutela dell’integrità personale e patrimoniale dei terzi costituisce limite esterno della discrezionalità amministrativa, con conseguente configurabilità dell’illecito aquiliano in caso di violazione.

Esclusione dell’art. 2051 c.c. L’orientamento prevalente tende ad escludere che possa applicarsi l’ipotesi speciale di responsabilità riguardante i danni provocati da cose in custodia.

Argomenti. Innanzitutto perché, come si vedrà, tale norma prevede un’ipotesi di presunzione di responsabilità (o di colpa secondo la sentenza sub 3b), che contrasterebbe con la presunzione di legittimità dell’attività amministrativa. Inoltre perché tale previsione presuppone la sussistenza di un c.d. rapporto di custodia, cioè di un potere effettivo di controllo e vigilanza che consenta un concreto e tempestivo intervento da parte del soggetto cui compete la res. La notevole estensione della rete stradale e l’uso generale e diretto da parte dei terzi costituiscono ostacoli al concreto esercizio di tale potere di controllo. Di conseguenza, non si configura il requisito per l’operatività di una tale disposizione.

La conseguenza di questa esclusione consiste nel più aspro onere probatorio gravante sul danneggiato.

Natura di responsabilità oggettiva. Infatti il regime previsto dalla norma in questione appare indubbiamente più favorevole per chi patisce il danno. Secondo l’opinione assolutamente prevalente, l’art. 2051 c.c. rappresenta un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in cui rileva esclusivamente l’esistenza di un rapporto di custodia, cioè di effettiva disponibilità e controllo della cosa, e la derivazione del danno dalla res. Ciò si giustifica per il fatto che il legislatore ha deciso di addossare a chi si avvantaggia della cosa le conseguenze dannose che da essa derivano, a prescindere che a costui possa essere mosso un qualsiasi rimprovero per il contegno tenuto.

Di conseguenza l’obbligo risarcitorio del custode dipende dalla mera prova delle conseguenze dannose patite e del nesso causale tra queste e la cosa stessa, senza che l’eventuale assenza di colpa e dolo di costui assuma il minimo rilievo. Il danneggiato non è tenuto a provare altro.

In base a quanto detto la prova liberatoria del responsabile non si limita alla dimostrazione della più totale diligenza nel controllo o vigilanza della cosa, cioè all’assenza di colpa. Essa è più ardua perché non consiste nel dar conto del fatto proprio, ma corrisponde alla precisa individuazione di una causa esterna non imputabile al custode, sia essa rappresentata da un fatto naturale oppure dal comportamento di un terzo o dello stesso danneggiato. Questo significa, tra l’altro, che qualora la causa del danno rimanga ignota, l’incertezza sfavorirà il custode e non il danneggiato, come avverrebbe secondo la disciplina generale in materia di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.

La tesi della responsabilità oggettiva si fonda sullo stesso dettato dell’art. 2051 c.c., che non menziona per nulla la colpa, nonché dall’inciso che regolamenta la prova liberatoria, identificandola con il caso fortuito. Il caso fortuito è infatti tradizionalmente identificato con la causa estranea alla sfera di controllo dell’agente, per essere oggettivamente imprevedibile e dunque inevitabile. La natura oggettiva della valutazione dell’imprevedibilità, che prescinde totalmente dalle condizioni soggettive del danneggiante, distingue le ipotesi responsabilità oggettiva da quelle di colpa presunta. Come accennato, il caso fortuito può essere costituito dal fatto dello stesso danneggiato (ad esempio l’utilizzo anomalo della cosa, tra cui percorrere una strada senza rispettare le norme di diligenza e prudenza) quando rappresenta un fattore di per sé idoneo a provocare l’evento lesivo, configurandosi come assolutamente imprevedibile. Altrimenti l’imprudenza del soggetto leso concorre nella causazione del danno e si discute se sia configurabile il concorso di responsabilità ex art. 1227, comma 1° c.c. oppure la responsabilità debba essere addossata totalmente al custode.

L’inapplicabilità di questo regime favorevole al danneggiato lascia spazio alla disciplina ex art. 2043 c.c.

Particolare applicazione dell’art. 2043 c.c. La Giurisprudenza maggioritaria, quindi, conclude per la responsabilità della PA secondo la clausola generale aquiliana.

A riguardo, però, è stato elaborato un criterio di giudizio semplificato, che tiene conto dei particolari rapporti di fatto intercorrenti tra l’ente gestore, l’utente ed il demanio stradale, fondato sulla nozione di “insidia o trabocchetto”. In questo modo si è predisposta una figura sintomatica di responsabilità, idonea a contemperare gli interessi antagonisti.

La c.d. insidia o trabocchetto consiste in una situazione di pericolo caratterizzata dall’elemento oggettivo della non visibilità e da quello soggettivo dell’imprevedibilità ed inevitabilità, valutabili dal Giudice secondo le caratteristiche del caso concreto (tipo di strada, condizioni metereologiche, etc.).

Qualora il difetto di manutenzione, pur imputabile alla PA, non generi una situazione di pericolo con tali caratteristiche, il danneggiato non può ottenere il risarcimento del danno. Infatti, sulla base del principio di autoresponsabilità, costui non può utilizzare indiscriminatamente il demanio stradale, fidando in assoluto sull’assenza di pericoli che il gestore non è sempre in grado di evitare, ma deve adottare particolare attenzione al fine di salvaguardare l’incolumità propria ed altrui. Di conseguenza, la verificazione del danno, nonostante l’evitabilità del pericolo, è fatto imputabile unicamente all’ imprudenza dell’utente, che deve adottare un elevato grado di cautela.

Viceversa, qualora il danneggiato provi che il difetto di manutenzione abbia generato una vera e propria insidia, nel senso descritto, allora deve essere affermata la responsabilità della PA, pur senza che ne sia dimostrata una specifica colpa. Essa infatti si presume, salva la prova contraria di non aver potuto rimuovere la situazione di pericolo nonostante un adeguato sforzo di diligenza.

L’assetto descritto favorisce evidentemente la PA, limitando l’obbligo di controllo e vigilanza su di essa gravante alla mera esistenza di situazioni di pericolo occulto ed esonerandola automaticamente per qualsiasi altra circostanza rischiosa che sia in qualche modo riconducibile ad un difetto di manutenzione.

Di conseguenza, o il danneggiato prova l’insidia, e con essa, implicitamente, la colpa e la responsabilità esclusiva della PA, oppure la situazione di pericolo era evitabile e quindi il danno non è risarcibile perché imputabile esclusivamente alla negligenza dell’utente.

b) Orientamenti minoritari collaterali. Del resto, il rigido impianto di origine pretoria appena illustrato, non ha evitato decisioni divergenti che hanno inquadrato diversamente l’assetto di interessi sotteso ad una tale vicenda.

Alcune sentenze, così, hanno ritenuto che il danneggiato debba provare, oltre alla sussistenza del trabocchetto, anche la colpa della PA, consistente nel non averlo rimosso tempestivamente nonostante la sua doverosa conoscenza.

La pronuncia n° 17152 del 2002 ha affermato la compatibilità della sussistenza di una insidia e della colpa concorrente del danneggiato ex art. 1227, comma 1° Cc.

Ma ciò che più interessa in questa sede, è che alcune decisioni della Suprema Corte hanno optato per l’applicazione dell’art. 2051 c.c., così da consentire l’operatività del regime probatorio semplificato.

Infatti, la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n° 156 del 1999, se da un lato ha implicitamente convalidato la nozione di insidia, dall’altro ha sostenuto che l’estensione e l’uso generale del demanio stradale costituiscono meri indici dell’assenza del rapporto di custodia: solo un’indagine condotta dal Giudice con riferimento al caso singolo può essere decisiva ai fini di una tale qualificazione.

Di conseguenza, qualora l’uso del bene risulti circoscritto e limitato ad un’area comunque controllabile, non vi è ragione di escludere l’obbligo del custode all’attenta manutenzione del bene (ad es. Cass. 699/1999).

In particolare, l’applicazione dell’art. 2051 Cc è affermata da alcune sentenze riguardo agli enti pubblici minori per i beni demaniali di loro pertinenza (ad es. Cass. 4070/1998).

c) La sentenza n° 488 del 2003. La Corte di Cassazione, con la sentenza che ha deciso la vicenda illustrata nella traccia, ha continuato nella via da ultimo citata, giungendo ad affermare l’applicabilità dell’art. 2051 Cc nei confronti dell’ente tenuto alla gestione delle autostrade, e quindi con riferimento ad una rete stradale indubbiamente caratterizzata dall’uso generalizzato e dall’estensione estremamente ampia.

Infatti, si sottolinea che, al fine di valutare la possibilità o l’impossibilità di un efficace controllo, non si deve tener conto solo della estensione della strada ma anche di altre caratteristiche, tra cui le dotazioni, i sistemi di assistenza, gli strumenti che il progresso tecnologico appresta e che condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti. Alla stregua di questi parametri, per le autostrade, destinate per natura alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l’apprezzamento relativo all’effettiva possibilità di controllo non può che indurre a conclusioni in via generale affermative.

In particolare, riguardo alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze dell’autostrada, la responsabilità del custode può essere affermata ex art. 2051 Cc, sulla base della mera prova del danno subito dall’utente e del nesso causale tra esso e le condizioni della strada. La prova liberatoria del custode deve consistere nel caso fortuito o comunque nel comportamento dello stesso danneggiato o di un terzo, idoneo ad interrompere il nesso causale. Il più intenso rapporto tra il gestore e la res, che consente una vigilanza costante, ingenera l’aspettativa di corretta manutenzione, facendo sì che il principio di autoresponsabilità si atteggi in modo diverso e la mera colpa concorrente dell’utente non escluda il risarcimento del danno.

Diversamente, in caso di pericolo provocato dagli stessi utenti o da una repentina ed imprevedibile alterazione della cosa, l’ente gestore può andare esente da responsabilità qualora provi l’impossibilità di rimuovere o segnalare adeguatamente la minaccia per difetto del tempo necessario a provvedere.

Concludendo, con riferimento al caso di specie, l’adozione del regime ex art. 2051 Cc risulta favorevole al danneggiato non tanto perché lo dispensa dall’onere di provare la colpa del danneggiante (implicita nella mancata adozione delle cautele imposte), ma perché consente l’affrancamento dal rigido schema connesso alla nozione di “trabocchetto”, in virtù del quale l’autoresponsabilità del conducente rileva esclusivamente come causa di esclusione della responsabilità dell’ente gestore e non anche come causa concorrente.

2) L’evoluzione giurisprudenziale ulteriore. L’approdo appena illustrato rappresenta solo una tappa dell’evoluzione in atto, oggetto di contrasti che preludono all’intervento nomofilattico delle Sezioni unite. Si dà conto quindi delle successive pronunce più significative.

a) La sentenza n. 19653 del 2004. In un importante obiter dictum la Cassazione ha ampliato notevolmente la portata del principio di diritto enunciato dalla sentenza n. 488 del 2003.

Irrilevanza dell’uso e dell’estensione per escludere l’art. 2051 c.c. Si afferma che le più recenti sentenze (tra cui appunto Cass. n. 488), pur se non espressamente, hanno voluto in via generale escludere che la natura pubblica del bene, il suo uso generalizzato e la grande estensione, siano preclusive della tutela ex art. 2051 c.c. Tali caratteristiche della cosa che ha prodotto il danno non rilevano quindi per la scelta del regime di responsabilità applicabile (2043 o 2051), ma ai fini della determinazione della prova liberatoria di cui è gravata la PA.

Assetto dell’onere probatorio. Mutuando la distinzione già prima illustrata, si opina che, qualora il danno derivi dalla struttura o dalle pertinenze del bene, allora la PA deve dimostrare l’espletamento di tutta l’attività di controllo e manutenzione possibile, tenuto conto delle caratteristiche del bene. In caso di attività diligente, si deve presumere che la situazione pericolosa si sia originata a causa del caso fortuito, cioè da un fattore inevitabile ed imprevedibile, pur se sconosciuto.

Invece, qualora il danno derivi da alterazioni della cosa dovute da fattori contingenti (il comportamento di altri utenti oppure guasti repentini), la PA deve provare l’impossibilità di intervenire tempestivamente, cioè che il lasso di tempo tra il sorgere del pericolo e la verificazione dell’incidente non sarebbe stato possibile provvedere alla sua rimozione.

Ambigua natura della responsabilità ex art. 2051 c.c. In questo modo la Suprema Corte sembra definitivamente abbandonare la nozione di insidia, modificando sensibilmente la disciplina della responsabilità della PA. Del resto la generalizzata apertura all’applicazione dell’art. 2051 c.c., non corrisponde ad una effettiva adozione della regola di imputazione oggettiva. Infatti la Cassazione fa dipendere la responsabilità dalla prova liberatoria dell’assenza di negligenza in entrambe le ipotesi di pericolo, pur se con sfumature diverse. In particolare, in caso di pericoli strutturali, si afferma la presunzione che l’assenza di colpa in capo alla PA corrisponda all’esistenza del caso fortuito. In questo modo le cause ignote, cioè i fattori causali che sfuggono all’accertamento, gravano in capo al danneggiato, contro i principi generali in materia di responsabilità oggettiva.

In conclusione si può affermare che la Corte di cassazione, nell’obiter dictum su cui ci si è soffermati, propone il superamento della nozione di insidia tramite l’applicazione dell’art. 2051 c.c., ma allo stesso tempo trasforma tale disposizione da ipotesi di responsabilità oggettiva ad ipotesi di inversione dell’onere della prova della colpa. Si opera così una sorta di compensazione, eliminando un ingiustificato privilegio a favore della PA ma allo stesso tempo preservandola dalle rigorose conseguenze della responsabilità fondata sul solo nesso causale.

b) Le sentenze del 2006. Nel frattempo alcune sentenze hanno dimostrato di non recepire l’impostazione innovativa, continuando ad imperniare la soluzione delle controversie sul concetto di insidia (Cass. civ., sez. III, 1 dicembre 2004, n. 22592; Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2005, n. 3745). L’applicabilità dell’art. 2051 c.c., con la conseguente emancipazione dalla necessità di un pericolo occulto, è stata negata per l’impossibilità di un controllo effettivo a causa dell’estensione della cosa su cui vigilare.

Di contro, il nuovo ed ancor più deciso ribaltamento delle posizioni tradizionali è avvenuto con le sentenze della III sezione della Cassazione nn. 3651 del 20 febbraio e n. 5445 del 14 marzo 2006.

Il ripudio dell’insidia. Con tali pronunce si critica alla radice il fondamento della figura di origine pretoria e l’assetto probatorio ad essa corrispondente.

La sentenza n. 3651 reputa irrilevanti gli indici dell’uso generalizzato e dell’estensione del bene per l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., affermando che la responsabilità speciale per cose in custodia sia non solo configurabile, ma senz’altro preferibile rispetto alla regola generale posta dall’art. 2043 c.c. Essa si presta, infatti, ad una migliore salvaguardia e ad un miglior bilanciamento degli interessi in gioco in conformità ai principi dell’ordinamento giuridico ed al sentire sociale. Comunque per completezza viene osservato che la regola generale di responsabilità civile ex art. 2043 c.c. deve essere interpretata secondo il tenore formale e il significato sostanziale. Di conseguenza la limitazione della responsabilità della PA a situazioni di pericolo occulto, con prova addossata al danneggiato, deve essere superata perché costituisce un ingiustificato privilegio a favore del soggetto pubblico.

Questa strada viene continuata dalla sentenza n. 5445, che verte specificamente sull’art. 2043 c.c. Particolarmente indicativo è il seguente passo: “…diversa­mente da quanto dall'odierna ricorrente dedotto in con­formità a principio da questa Corte in effetti costan­temente affermato e che il collegio ritiene peraltro di non poter condividere, l'insidia determinante pericolo occulto non è invero dalla norma di cui all'art. 2043 c.c. contemplata, trattandosi di figura di elaborazione giurisprudenziale ( cfr. Cass., 9 novembre 2005, n. 21684; Cass., 13 luglio 2005, n. 14749; Cass., 17 mag­gio 2005, n. 6767; Cass., 25 giugno 2003, n. 10131 ) che, movendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabilità, finisce tuttavia per risolversi, laddove viene a porsene la relativa prova a carico del danneggiato, in termini di ingiustificato privilegio per la P.A.

La posizione probatoria del danneggiato risulta in­fatti a tale stregua aggravata, in contrasto non solo con il tenore letterale ed il portato sostanziale della norma ma anche con le stesse scelte di fondo dell'ordinamento in materia di responsabilità civile, rispondenti al riconosciuto favor per il soggetto che ha subito la lesione di una propria posizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante e tutelata, che, laddove non prevenuta, ne impone la rimozione o il ri­storo da parte del danneggiante.

Costruzione dalla giurisprudenza a suo tempo elabo­rata in ossequio a finalità socio-politiche ed economi­che alla norma e alla materia in questione sono tutta­via in realtà estranee, e comunque ormai ( quantomeno ) non ( più ) rispondenti al prevalente sentire della coscienza sociale.

Con la conseguenza che, diversamente da quanto pure da questa Corte costantemente affermato ( v. la stessa Cass., 4/6/2004, n. 10564 dianzi citata ), della rela­tiva prova non può ritenersi onerato il danneggiato”.

La sussistenza o meno di una situazione di pericolo occulto conserva comunque, secondo la Suprema corte, una residua rilevanza. Infatti, nonostante la colpa della PA, l’evitabilità e la prevedibilità dell’ostacolo può evidenziare la colpa concorrente o assorbente dell’utente della strada, con eventuale applicabilità dell’art. 1227, comma 1° oppure addirittura interruzione del nesso causale.

E’ il caso, però, di precisare che la presa di posizione appena illustrata, per quanto apertamente rivoluzionaria ed indicativa del futuro intento innovativo del Supremo Collegio, rischia di ridursi ad un mero obiter dictum, se si tiene conto che le fattispecie portate alla cognizione della Cassazione riguardavano delle vere e proprie insidie. In un caso si trattava del cedimento della spalletta in muratura di un ponte, pericolante per assoluta assenza di manutenzione, nell’altro si verteva riguardo all’inopinata frana della banchina a lato della carreggiata stradale. Di conseguenza sembra che, anche senza la critica dell’assetto tradizionale, la Cassazione sarebbe potuta giungere al medesimo risultato.

La natura della responsabilità ex art. 2051 c.c. La sentenza n. 3651 offre alla Cassazione l’occasione per distaccarsi apertamente dall’orientamento prevalente sulla natura della responsabilità del custode (vedi sub 2°, 2° sottoparagrafo).

Infatti in questa pronuncia viene sostenuto che l’art. 2051 c.c. non delinea un’ipotesi di presunzione di responsabilità (cioè di responsabilità oggettiva), ma di presunzione di colpa. In altri termini la negligenza del custode è elemento costitutivo della fattispecie, pur se presunto fino a prova contraria.

Ciò significa che il danneggiato non ha l’onere di provare la negligenza nella manutenzione da parte della PA, né tanto meno l’esistenza di un’insidia o trabocchetto. Al contempo, l’ente pubblico tenuto al controllo ed alla vigilanza sulle condizioni della rete stradale, diversamente da quanto avverrebbe in caso di responsabilità oggettiva, può liberarsi da ogni addebito dimostrando la propria diligenza nell’assolvere alle proprie competenze. Viene così data base teorica al tentativo di “compensazione” iniziato dalla sentenza del 2004, illustrata sub 3a.

Questo approdo è ottenuto valorizzando l’inciso dell’art. 2051 c.c. che richiama la nozione di caso fortuito. Come inizialmente accennato, questa figura è generalmente identificata con le cause esterne alla relazione del custode con la cosa, che spezzano il nesso causale tra il danno e la res in quanto oggettivamente imprevedibili ed inevitabili. Proprio partendo dalla suddetta caratteristica, la sentenza n. 3651 nota che la prova liberatoria si riduce all’impossibilità di evitare l’evento lesivo nonostante l’adozione della diligenza adeguata alla natura della cosa ed alle caratteristiche del caso concreto. Si sostanzia, pertanto, nella dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee di prevenzione, con esclusione di responsabilità qualora sarebbero stati necessari accorgimenti straordinari (Cass. civ., 5 luglio 1991, n. 7411). Infatti, a fondamento della norma speciale ex art. 2051 c.c., vi sarebbe la violazione del generale obbligo di vigilanza e controllo sul bene di cui si dispone, così che la colpa del custode farebbe indubbiamente parte della struttura della fattispecie, pur se con l’aggravamento della presunzione a sfavore del danneggiante.

Di conseguenza, secondo il supremo Collegio, sarebbe più corretto affermare che l’onere probatorio del custode non deve riguardare necessariamente l’interruzione del nesso causale, ma più semplicemente è finalizzato ad un giudizio di diligenza, con cui si rimprovera quanto sarebbe dovuto esser fatto e non è stato fatto. A tale riguardo tornano ad assumere importanza gli indici dell’uso generalizzato e dell’estensione del bene, di cui invece è stata negata in radice la rilevanza ostativa dell’applicazione dell’art. 2051 c.c. Così, in caso di pericolo connesso alla struttura od alle pertinenze del bene demaniale o patrimoniale della PA, la prova liberatoria attiene alla dimostrazione dell’espletamento dell’attività di controllo e manutenzione necessari in base alla natura (cioè, tra l’altro, uso ed estensione) della cosa. In caso di situazioni repentine e contingenti di alterazione dello stato della cosa, è necessario dimostrare che il danno è dovuto ad un evento non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza.

Critica alla tesi della presunzione di responsabilità. Il superamento della tesi della responsabilità oggettiva comporta la notevole conseguenza dell’attribuzione del rischio delle cause ignote in capo all’utente del demanio stradale.

Ad esempio, in base alla mera presunzione di colpa, qualora il muro di protezione di un ponte risulti essere pericolante nonostante il diligente e recente intervento di manutenzione, la prova dell’assenza di negligenza fornita dalla PA escluderebbe la possibilità di ottenere il risarcimento. All’opposto, riconducendo l’art. 2051 c.c. nell’ambito delle ipotesi di responsabilità oggettiva, la PA potrebbe liberarsi solo individuando la precisa causa che ha reso pericolante il ponte, sempre che dimostri che questa era assolutamente imprevedibile.

Ma una tale ricaduta pratica, per quanto per alcuni opportuna per riequilibrare l’assetto probatorio relativo ai danni da difetto di manutenzione del demanio stradale a seguito del tramonto della nozione di insidia, non sembra assolutamente supportata dal dettato dell’art. 2051 c.c. Il richiamo del caso fortuito evidentemente individua come prova liberatoria un fatto diverso rispetto a quello diligente del custode. Inoltre l’imprevedibilità che caratterizza il fortuito ha natura assoluta ed oggettiva, non essendo commisurata alle caratteristiche di esigibilità del soggetto agente, che invece fondano la valutazione della colpa.

Non si può quindi che rimanere scettici sulla soluzione prospettata in questa recente sentenza, aspettando fiduciosi una più consapevole pronuncia delle Sezioni unite.

3) Responsabilità contrattuale per cattiva manutenzione delle autostrade.

a) Orientamento negativo. La Giurisprudenza prevalente, almeno in materia civile (tra cui C. Cass. SU 10893/2001, in Giur. It. 2002, 1065), esclude che l’ingresso in autostrada e l’apprensione del biglietto di transito da parte dell’automobilista determini la nascita di un rapporto contrattuale con l’ente gestore. Il pedaggio autostradale, infatti, non costituirebbe un corrispettivo ma, più correttamente, il pagamento di una tassa al fine di fruire di un servizio pubblico. Di conseguenza, l’utente ha diritto di servirsi della strada nelle condizioni in cui è, senza che sul gestore gravi l’impegno contrattuale di garantire la sicurezza del viaggio.

b) Tesi minoritaria. Del resto, la sentenza n. 488 del 2003, da cui è tratta la traccia del parere, con un iniziale obiter dictum, sembra accennare alla possibilità di agire in via contrattuale contro la Società Autostrade s.p.a., in virtù dell’obbligazione su di essa gravante di assicurare condizioni di sicurezza per gli utenti. In questo modo risulterebbe applicabile l’art. 1218 Cc, e si supererebbero le difficoltà di prova connesse all’applicazione dell’art. 2043 Cc.

In tal senso si è espressamente orientata la sentenza n° 298 del 2003 (in Corr. Giur. 2003, n° 9) per cui l’ente gestore, in virtù del pagamento del pedaggio, assume nei confronti dell’utente l’impegno di assicurare la buone condizioni di viaggio.

La Suprema Corte giunge a tale risultato attraverso la definizione della natura del pedaggio autostradale come prezzo pubblico e non come tassa. “Il corrispettivo di un servizio pubblico speciale (qual è certamente quello autostradale) è usualmente qualificato come tassa quando il servizio prevalentemente si concreta nel compimento di una attività identica, ripetuta, frazionabile in singole prestazioni determinate (a ciascuna delle quali è usualmente collegato un risultato) e regolate dalla Legge; mentre al prezzo pubblico corrisponde in genere la messa a disposizione di un bene o un’opera già compiutamente realizzati per fini di interesse generale, dove l’attività dell’amministrazione si è preventivamente dispiegata (direttamente o indirettamente) nella realizzazione del bene o dell’opera, il cui uso è poi consentito ai privati previo pagamento di una somma di denaro, anche in funzione del recupero totale o parziale del costo dell’opera”.

Nel caso delle autostrade a pedaggio appare prevalente il secondo ordine di elementi caratterizzanti. Infatti la PA mette e disposizione degli utenti un bene dietro corrispettivo cosicché tale ipotesi coincide con un vero e proprio rapporto contrattuale di scambio.