Infortuni sul lavoro e liquidazione del danno differenziale

E', ormai, comunemente noto come l'impianto della legge infortuni (D.P.R. n. 1124 del 1965) preveda sin dall'origine l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile e, dunque, dal risarcimento del danno, proprio per effetto dell'operatività della copertura assicurativa, ad eccezione, però, di un caso.

Infatti, al lavoratore infortunato è riconosciuta la facoltà di indirizzare direttamente al proprio datore di lavoro la richiesta di risarcimento di un danno subito e coperto dall'assicurazione, allorquando l'infortunio de quo:
- sia derivato dalla commissione di un fatto che costituisce reato da parte del datore di lavoro o di suoi incaricati o dipendenti;
- il reato commesso sia perseguibile d'ufficio;
- vi sia stato preventivamente l'accertamento giudiziale di una responsabilità penale del datore di lavoro secondo quanto disposto dall'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965.

Pertanto, ben si intuisce come allorquando emerga una colpa penale del datore di lavoro o di un suo ausiliario, a norma del citato art. 10, verrà meno l'indicata esenzione e riprenderà vita, nella sua pienezza, la responsabilità di diritto comune a carico del datore medesimo.

Sin qui nulla quaestio.

Le problematiche, semmai, si presentano allorquando si prende in considerazione la tematica relativa alle modalità di ^quantificazione del danno risarcibile^ direttamente dal datore di lavoro.

Sul punto, soccorre in aiuto il contenuto del comma 6 della norma poc'anzi citata, il quale stabilisce che "non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell'indennità liquidata all'infortunato".

La predetta disposizione allude, pertanto, alla meglio nota figura del ^danno differenziale^ che consiste esattamente in quella eventuale porzione di danno calcolato secondo il diritto comune e non coperta dall'intervento previdenziale per il medesimo titolo (G. MARANDO, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Milano, 2003, 501).

Quindi, il ^danno differenziale^ si configura come quella ulteriore ed eventuale quota di ristoro derivante dall'insufficienza delle prestazioni previdenziali secondo le normali regole della responsabilità civile.

Proprio sulla scorta della definizione poc'anzi offerta con riferimento alla figura del ^danno differenziale^, si osserva che da un'analisi dettagliata condotta è emerso come esclusivamente una parte della dottrina (G. MARANDO, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortnui sul lavoro, Milano, 2003, 505) si sia occupata specificamente delle modalità di calcolo del danno de quo.

A tale proposito, l'Autore di cui sopra ha sottolineato che la citata tipologia di danno va, dunque, calcolata con riferimento al quantum delle prestazioni assicurative che vengono erogate nel nuovo regime che, a fronte del D. Lgs. n. 38 del 2000 - recante ^Disposizioni in materia di infortuni sul lavoro e di malattie professionali^ -, ha introdotto la voce del danno biologico nell'ambito dei danni indennizzabili.

Orbene, alla luce delle consideraioni sin qui svolte, il Marando ha riconosciuto che il ^danno differenziale^ permette al lavoratore di ottenere dal responsabile dell'infortunio l'eventuale eccedenza di risarcimento civile rispetto alle seguenti voci:
- indennità per il danno patrimoniale da inabilità temporanea;
- capitale per il danno biologico permanente dal 6% al 15%, ovvero la rendita per il medesimo danno se di grado superiore (fino al cento per cento);
- quota di rendita di carattere patrimoniale per l'invalidità dal 16% in poi, integrata nei casi di quote per carichi familiari e dall'assegno per assistenza personale continuativa;
- danno patrimoniale dei superstiti, ristorato con la rendita e l'assegno funerario;
- spese mediche di cura e di protesi;
- rendita dal 33% in poi per l'infortunio domestico (G. MARANDO, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Milano, 2003, 504).

In definitva, sempre secondo l'opinione del medsimo Autore, il ^danno differenziale^ dovrà essere determinato mediante sottrazione dall'importo del danno complessivo, liquidato dal giudice secondo i criteri del codice civile, di quello delle prestazioni liquidate dall'I.N.A.I.L., riconducendolo al medesimo momento cui si riconduce il primo, in altre parole tenendo in considerazione i rispettivi valori come attualizzati alla data della decisione (in giurisprudenza, sul medesimo punto, si vedano: Cassazione civile. Sez. lav., 26 maggio 2001, n. 7195, in Giust. civ. Mass., 2001, 1067; Cassazione civile, sez. III, 12 dicembre 1996, n. 11073, in Giust. civ. Mass., 1996, 1722).

Ritornando a quanto poc'anzi osservato, se è pacifico che le modalità di calcolo per la quantificazione precisa del ^danno differenziale^ sono state evinte da un orientamento dottrinale, non altrettanto si può dedurre dalle pronunce guirisprudenziali esaminate ai fini della presente relazione.

Infatti, la giurisprudenza si è generalmente limitata ad offrire una semplice definizione del danno in questione.

Così, proprio con riferimento ad un infortunio occorso sul lavoro ad un operaio intento a lavorare ad una presa metallica, incidente che gli ha procurato la perdita di quattro dita della mano sinistra e delle teste dei quattro metacarpi corrispondenti, la Corte di Cassazione ha recentemente ribadito il principio secondo il quale "in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l'esonero da parte del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la limitazione dell'azione risarcitoria di questi al cosiddetto danno differenziale nell'ipotesi di esclusione di questo esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale …, riguarda solo le componenti del danno coperte dall'assicurazione obbligatoria (Cassazione civile, sez. lav., 20 giugno 2003, n. 9909, in Giust. civ. Mass., 2003, f. 6. Ex plurimis: Cassazione civile, sez. lav., 29 gennaio 2002, n. 1114, in Giust. civ. Mass., 2002, 154; Cassazione civile, sez. lav., 16 giugno 2001, n. 8182, in Giust. civ. Mass., 2001, 1208).


Perdita di capacità di lavoro specifica: adibizione a mansioni equivalenti e mantenimento della medesima retribuzione


Con riferimento alla tematica relativa alla cosiddetta ^capacità di lavoro specifica^, parte della dottrina (G. MARANDO, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Milano, 2003, 397) ha riconosciuto corretto parlare di ^menomazione della capacità lavorativa specifica^ allorquando l'infortunio occorso al lavoratore:
- abbia causato un danno patrimoniale che si traduce concretamente in una perdita di reddito, temporanea o definitva, anche sotto il profilo di perdita di una o più favorevoli possibilità di incremento patrimoniale o di carriera (cosiddetta chances);
- abbia procurato nel lavoratore una incapacità di svolgere il proprio lavoro ovvero di intraprenderne uno nuovo;
- abbia comportato una incapacità reddituale e di guadagno attuale;
- abbia causato una incapacità reddittuale e di guadagno futura, anche in assenza di una contrazione di reddito attuale.

Anche la giurisprudenza si è espressa, in più occasioni, sulla tematica in esame soffermandosi soprattutto, ai fini della valutazione di una perdita o riduzione della capacità specifica di lavoro, su determinati aspetti, quali:
- il concreto venir meno della capacità di guadagno in relazione all'attività lavorativa in atto (Cassazione civile, sez. III, 2 febbraio 2001, n. 1512, in Giust. civ. Mass., 2001, 199; Cassazione civile, sez. III, 12 settembre 2000, n. 12022, in Giust. civ. Mass., 2000, 1919);
- la allegazione e dimostrazione da parte del danneggiato di una concreta riduzione del reddito (Cassazione civile, sez. III, 4 dicembre 1998, n. 12319, in Danno e resp., 1999, 515; Cassazione civile, sez. III, 19 febbraio 1998, n. 1764, in Arch. Giur. circol. E sinistri, 1998, 881);
- la assenza di una contrazione del reddito attuale connaturata alla perdita di opportunità o di accorciamento della vita lavorativa futura (Cassazione civile, sez. III, 15 settembre 1997, n. 9285, in Riv. giur. circol. trasp., 1997, 824);
- la assenza di una contrazione del reddito attuale connessa all'influenza negativa che l'invalidità derivata dall'infortunio possa spiegare sulla percezione di speciali compensi per prestazioni di lavoro più intense delle normali, sull'ulteriore sviluppo di carriera o su una possibile collocazione anticipata al riposo, nonché su una alternativa possibilità di lavoro e, da ultimo, sul carattere maggiormente usurante della prestazione normalmente svolta sulla base della comune esperienza (Cassazione civile, sez. III, 23 maggio 1997, n. 4609, in Giust. civ. Mass., 1997, 827).

Sulla scorta delle considerazioni guirisprudenziali sin qui illustrate, ben si intuisce come l'elemento relativo alla riduzione o perdita della capacità di guadagno, legata allo svolgimento del proprio specifico lavoro, costituisca la scriminante per l'operatività del risarcimento da perdita di capacità lavorativa specifica.

Ma vi è di più.

Infatti, laddove nel caso concreto non si dovesse riscontrare una contrazione dell'attuale capacità di reddito del lavoratore infortunato, la giurisprudenza sposta l'attenzione sulla necessità di verificare la circostanza in prospettiva futura.

Al vaglio dell'attenzione dei giudici di merito e di legittimità è stata altresì posta la questione attinente allo svolgimento, da parte del lavoratore danneggiato, di mansioni affini e confacenti a seguito dell'intervenuto infortunio.

Sul punto, e proprio con riferimento al caso che qui ci occupa inerente al lavoratore infortunato che, a seguito dell'infortunio, non abbia perso il proprio lavoro, ma, al contrario, sia stato unicamente adibito a mansioni equivalenti alle precedenti e con mantenimento della propria retribuzione, i giudici di merito hanno espressamente stabilito che "nella valutazione dell'incidenza negativa sul reddito della diminuita capacità lavorativa, attuale o potenziale, deve aversi riguardo alla capacità lavorativa specifica o in mansioni affini e confacenti" (Tribunale di Crema, 8 giugno 1989, in Inf. previd., 1990, 632).

A conferma di quanto poc'anzi affermato, è stata altresì riscontrata una pronuncia espressa dai giudici di legittimità che, in tema di diritto alla pensione di invalidità, hanno accostato alla capacità di continuare a svolgere la propria specifica attività lavorativa lo svolgimento di un'attività affine dalla quale si trae il relativo guadagno (Cassazione civile, sez. lav., 12 ottobre 1984, n. 5116, in Giust. civ. Mass.1984, fasc. 10, esattamente statuisce che "per l'insorgenza del diritto alla pensione di invalidità, ai sensi dell'art. 10 r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 e successive modifiche, è necessaria l'intrinseca e obiettiva riduzione nell'assicurato, a causa di malattia, della capacità di continuare a svolgere la propria specifica attività lavorativa, ovvero attività affine traendone il relativo guadagno).

Addirittura, la Cassazione in una recente pronuncia ha esaminato la questione de quo con riferimento al lavoratore che ricopre la qualifica professionale di ^operaio generico^. (Cassazione civile, sez. III, 17 dicembre 2003, n. 18945).

I giudici della Corte hanno, a tal proposito, ribadito che per valutare se concretamente si sia verificata una riduzione della capacità lavorativa specifica avuto riguardo ad un un operaio generico, essendo più ampio il ventaglio delle attività cui lo stesso è chiamato, si dovrà porgere maggiore attenzione alla varietà di alternative che allo stesso è offerta, sia pure con riferimento alle concrete probabilità desumibili dalla situazione specifica ambientale e personale.

Quindi, ai fini di una concreta verifica della riduzione o della perdita in capo al lavoratore infortunato della capacità di lavoro specifica, l'aspetto relativo allo spostamento del danneggiato dalle mansioni precedentemente svolte a nuove ed affini mansioni, alla luce delle pronunce poc'anzi illustrate, può presumibilmente assumere una certa rilevanza giuridica.


Concorso di colpa del lavoratore nella causazione dell'evento-infortunio e relativa incidenza sulla liquidazione del danno


In materia di ^concorso di colpa^ del lavoratore infortunato, giova innanzi tutto premettere che il surriferito argomento è stato trattato, sia in dottrina che in giurisprudenza, soprattutto con riferimento all'azione di rivalsa esperibile da parte dell'Istituto assicuratore nei confronti del soggetto responsabile dell'evento infortunio.

Alla luce di ciò, pertanto, dottrina autorevole ha avuto modo di ribadire che strettamente connesso ai criteri sulla quantificazione del danno comune, che riguarda sempre i limiti oggettivi della rivalsa, è l'argomento dell'incidenza sulla pretesa dell'assicurazione della colpa concorrente del danneggiato.

A tale proporsito, pertanto, il giudice adito con l'azione di regresso dell'I.N.A.I.L., prima deve effettuare la liquidazione del danno patito dall'infortunato, con adeguata motivazione delle modalità di calcolo secondo gli ordinari criteri utilizzabili per il danno da fatto illecito, decurtando tale liquidazione in base al concorso di colpa del danneggiato stesso (G. MARANDO, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Milano, 2003, 533; G. ALIBRANDI, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2002, 760).

Quindi, proponendo l'esempio di un danno civile pari a 100, con un concorso di colpa della vittima del 25% ed una indnnità previdenziale eguale a 80, la surroga non potrà esercitarsi che per la minore somma di 75, equivalente alla parte di responsabilità del terzo e, quindi, ai corrispettivi diritti del danneggiato.

Anche la giurisprudenza si è espressa, a più riprese, sul punto.

Con riferimento alla responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutela rel'integrità fisica del lavoratore, i giudici di legittimità hanno, infatti, stabilito che "tale responsabilità è esclusa solo in caso di dolo o rischio elettivo del lavoratore, ovvero di rischio generato da un'attività che non abbia rapporti con lo svolgimento dell'attività lavorativa o che esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa, mentre l'eventuale colpa del lavoratore non è in sé idonea ad escludere il nesso causale tra il verificarsi del danno e la responsabilità dell'imprenditore, sul quale grava l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ed il concorso o la cooperazione colposa del lavoratore nella causazione del danno non eliminano la responsabilità del datore di lavoro, ma ne riducono soltanto la quantificazione in misura proporzionale" (Cassazione civile, sez. lav., 19 aprile 2003, n. 6377, in Giust. civ. Mass., 2003, f. 4).

Sulla scorta del poc'anzi esposto orientamento giurisprudenziale, anche Pretura di Taranto, 26 giugno 1993 (in Orient. giur. lav., 1994, 159) ha stabilito che "il concorso di colpa del lavoratore nella causazione dell'ifnortunio da lui subito, è rilevante sia sul piano della responsabilità extracontrattuale che contrattuale. Pertanto, alla luce della sentenza penale che ha stabilito il grado di incidenza del comportamento colposo del lavoratore nel verificarsi dell'infortunio, il risarcimento dei danni è diminuito secondo la gravità della colpa e delle conseguenze che ne sono derivate".

Ed ancora:
- Cassazione civile, sez. III, 12 gennaio 1996, n. 187, in Riv. infort. e mal. prof., 1996, II, 68, nella quale si stabilisce che "nel caso di colpa tra l'infortunato ed il terzo responsabile dell'infortunio, l'Inail, che agisce ex art. 1916 c.c., in surrogazione dell'assicurato nei confronti di quest'ultimo, ha il diritto di ottenere l'intero ammontare delle prestazioni erogate, non decurtato cioè della quota riferibile al concorso di colpa, il quale opera, invece, come limite della rivalsa, nel senso che questa non può superare la somma complessivamente dovuta dall'autore del danno per effetto del concorso di colpa del danneggiato";
- Cassazione civile, sez. lav. 1 settembre 1986, n. 5352, in Giust. civ. Mass., 1986, fasc. 8-9, laddove l'eventuale concorso di colpa del danneggiato è contemplato come criterio cui il giudice deve rifarsi per la liquidazione del danno da risarcire;
- Cassazione civile, sez. lav., 18 maggio 1981, n. 3277, in Riv. infort. e mal. prof., 1981, II, 221 e Cassazione civile, sez. III, 22 giugno 1979, n. 3511, in Riv. infort. e mal. prof., 1979, II, 199, nelle quali si osserva che "il credito dell'Inail per il rimborso da parte del responsabile civile di infortunio sul lavoro di quanto corrisposto in favore dell'infortunato trova come limite quantitiativo il complessivo ammontare del risarcimento che sarebbe in effetti dovuto dal responsabile al lavoratore infortunato, secondo le norme generali sui danni da fatto illecito e, quindi, tenuto anche conto dell'eventuale concorso di colpa del danneggiato".

Accanto alle citate pronunce, se ne segnalano altre dalle quali emerge, invece, un orientamento giurisprudenziale differente da quello sin qui emerso.

Infatti, i giudici di merito hanno avuto modo di sostenere che in ipotesi di infortunio sul lavoro, una volta accertata la mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza imposte ex lege, va ritenuta la piena responsabilità datoriale con conseguente obbligo di integrale risarcimento del danno biologico, del danno morale e delle spese mediche, indipendentemente dall'eventuale concorso di colpa del lavoratore infortunato, che non vale ad escludere la responsabilità datoriale, posto che la possibilità di concorrenti condotte colpose degli addetti è una delle principali regioni della rigorosità della normativa antifortunisctica di riferimento (Pretura di Busto Arsizio, 10 febbraio 1999; Pretura di Milano, 30 aprile 1997).