Riparazione per l'ingiusta detenzione

La Suprema Corte, con la sentenza che si commenta, risolve il problema della definizione dei limiti dell’intervento e della valutazione del giudice di merito (funzionalmente la Corte di Appello) in materia di richiesta di indennizzo per ingiusta detenzione ai sensi dell’art. 314 c.p.p.1.

Il principio che emerge dal provvedimento è, quindi, quello per cui viene riconosciuto al giudice, chiamato a valutare la fondatezza dell’istanza di riparazione, il potere di riesaminare quei dati che hanno già formato oggetto della valutazione del giudice di cognizione.

Si tratta, quindi, di un’esplorazione fattuale che, se da un lato, è del tutto simile a quella che viene svolta nel corso del giudizio finalizzato all’accertamento della responsabilità penale, è, dall’altro, tesa, però, a constatare ed acclarare la sussistenza, in capo al reclamante (prosciolto da responsabilità penale), di quelle condizioni che il codice prevede per il riconoscimento dell’indennizzo.

Preliminare ad ogni altra considerazione, infatti, secondo la Corte di Cassazione, è l’attività posta a carico del giudice, funzionalmente competente, di valutare il profilo del comportamento della persona prosciolta, il quale, seppur assolto dalle accuse mossegli, potrebbe essere incorso in una colpa talmente grave da indurre in errore l’Autorità giudiziaria.

Nel caso di specie appare, francamente, inquietante, sul piano strettamente giuridico, l’opinione così espressa dalla Suprema Corte.

I giudici di legittimità, infatti, conferiscono ed ascrivono anche a carico di chi sia stato coinvolto – erroneamente ed infondatamente – in indagini preliminari e sia stato ampiamente prosciolto od assolto, una responsabilità, quantomeno colposa, [che appare fortemente di ordine oggettivo] che è consequenziale alla di lui condizione di assuntore o tossicodipendente.

Non altrimenti, infatti, può interpretarsi l’affermazione, riportata in sentenza, secondo la quale il giudice di merito avrebbe correttamente valorizzato i rapporti fra l’istante, mero acquirente-consumatore, ed il di lui fornitore di stupefacenti, configurando negli stessi una valenza di natura illecita, che, seppur non riguardando il capo di imputazione (dal quale – si ribadisce – l’istante era risultato esente da responsabilità), riverbera, comunque, effetti idonei a sostenere che il giudice (e, quindi, implicitamente, il P.M. che aveva richiesto ed ottenuto la cattura) sarebbe stato “fuorviato” nella propria decisione, rivelatasi patentemente erronea.

Una simile pronunzia, a parere di chi scrive, nasconde – neppure tanto larvatamente – insidie e pericoli di chiare derive giustizialiste, dalle quali è assai agevole fare derivare una sorta di inammissibile immunità assoluta del giudice, pur in presenza di evidenti e reiterati errori.

La conferma, da parte del Supremo Collegio (rispetto alla posizione assunta dalla Corte di Appello di Bologna) di un orientamento atto a privilegiare situazioni che, pur trasfuse naturalisticamente all’interno della fase procedimentale, non hanno avuto in concreto – né potevano assumere -nel processo alcun valore indiziario o probatorio, pare un’inaccettabile estensione della causa petendi.

Vale a dire, dunque, che al giudice del procedimento indennitario viene riconosciuto il potere di attribuire (abnormemente) forza esplicativa anche a situazioni che prescindono dalla vera e propria condotta specificatamente perseguita.

Simile posizione, come detto, non convince assolutamente, ma – ahimè – non appare, purtroppo, inedita.

La stessa Sez. IV, con la pronunzia Mazzei, del 13-12-2005, n. 2895 (rv. 232884) [in CED Cassazione, 2006, Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 1, 121] ebbe già occasione di sostenere il principio in base al quale “In tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi la ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare tutti gli elementi probatori disponibili, tenendo conto di quanto riveli eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di norme o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. Il giudice, basandosi su fatti concreti deve valutare non se la condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell'autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto.”

Nel caso di specie, infatti, la Corte ebbe a ritenere sussistente la colpa del prevenuto il quale - pur senza esserne complice - aveva intrattenuto una lunga serie di telefonate con colui il quale lo aveva chiamato in correità e ne aveva determinato la custodia cautelare.

In buona sostanza, sulla base di un assioma – estremamente discutibile e sorprendente – per il quale vi potrebbe essere in vicende, del tipo di quella in esame, un’omologazione di ruoli fattuali indistinti tra chi spaccia e chi solo acquista, i Supremi giudici ravvisano la sussistenza di una condizione atta a mettere in difficoltà il magistrato e renderlo incolpevole nell’errore commesso.

Si noti, quindi, che il Collegio, tornando al caso che ci occupa, implicitamente ammette (come d’altronde lo aveva riconosciuto la Corte territoriale) la sussistenza di un evidente errore, che consiste nell’avere privato l’indagato della libertà (per circa 8 mesi), ma, ciò nonostante, interviene nel ragionamento dei giudici il perverso meccanismo del rovesciamento (o ribaltamento) delle responsabilità, indirizzo in base al quale la vittima dell’ingiustizia (il soggetto prosciolto) diviene, incredibilmente (ed apoditticamente) il vero efficiente protagonista ed autore dell’altrui errore, mandando esente da biasimo il vero responsabile.

Ergo, anche il comportamento del singolo, sanzionabile solo in sede amministrativo, impropriamente ed abnormemente, acquisisce valenza para penale, in quanto esso rientra nella generica e generale categoria dell’illecito, pur essendo palesemente situazione in toto differente dal reato di cessione o vendita di sostanze stupefacenti.

Ad colorandum va, poi, aggiunto come un ulteriore elemento di notevole perplessità, finisca per risiedere nel fatto che la Corte diversamente dall’opinione, non solo del ricorrente, ma anche del P.G., non spieghi concretamente quali siano i tratti specifici di colpa ravvisati nella fattispecie, nonchè il livello raggiunto dalla stessa.

Appare, infatti, sorprendente che la posizione di chi acquisti (e sia provato che faccia un uso personale dello stupefacente comperato) venga posta sulla stessa piattaforma e sullo stesso livello rispetto a chi lo ceda, anche reiteratamente.

Stupisce, ancor di più, che si affermi, in sentenza, che un magistrato inquirente possa essere fuorviato nell’identificazione di responsabilità penale (a fini di applicazione di misure privative la libertà) dalla percezione di rapporti che, nella loro evidenza, in realtà manifestano e delineano in maniera autonoma l’ambito nel quale operano tali due contrapposte figure.

Chiunque abbia un minimo di esperienza forense sa che l’attività di spaccio dello stupefacente non è (né può essere) confondibile né punto, né poco con quella di chi acquisti per assumere la sostanza.

Si tratta, quindi, di una decisione che, consolidando il principio “protezionistico” della tutela e della riduzione degli spazi di responsabilità del magistrato, nell’ambito della propria attività giurisdizionale, giunge paradossalmente a disattendere – quindi – elementi solarmente pacifici, creando un’inammissibile omologazione tra figure processuali tra loro assolutamente non confondibili.

Viene così criminalizzato, seppure sotto profili parzialmente differenti da quelli che sottendono alla legge sugli stupefacenti, quel soggetto, il consumatore non spacciatore, che lo stesso legislatore, pur in limiti assai angusti, ha escluso dal novero delle figure responsabili.

Non è questo un bel segnale, perché, sull’infondato presupposto che chi si droga, finirebbe, per propria esclusiva colpa, poter ingannare il giudice, (potendo essere da questi “incolpevolmente” omologato allo spacciatore) vengono aperte le porte a possibili spinte sempre più criminalizzanti quei comportamenti che, invece, devono trovare adeguata risposta preventiva ed amministrativa.

Soprattutto, viene rafforzato il convincimento, sia nell’opinione pubblica, che negli stessi operatori del diritto, che esiste una categoria professionale, che diversamente da altre, è autorizzata all’errore e rimane immune dalla conseguenze che ne possono derivare.