Condotta mobbizzante del datore tesa alla dequalificazione professionale

Gli artefici, possono essere datori di lavoro, soggetti sovraordinati o addirittura colleghi di pari grado e a volte l’azienda stessa nell’ambito di una strategia precisa.

Il comportamento di tali individui, traducendosi in atteggiamenti vessatori posti in essere con evidente determinazione, arrecano danni rilevanti alla condizione psico-fisica dei lavoratori che lo subiscono.

Nuovamente la Suprema Corte con la sentenza n. 40891 del 17 ottobre 2007 è chiamata a valutare la condotta del datore di lavoro, che si traduce in una sorta di terrorismo psicologico (fatto di vessazioni, umiliazioni, dequalificazioni professionali, eccessivo ricorso alle visite mediche di controllo anche a fronte di referti confermativi della patologia denunciata dal lavoratore, ecc.), nei confronti del dipendente, tale da coartarne o piegarne la volontà e che spesso è causa di gravi patologie interessanti la sfera neuropsichica del soggetto esposto.

Una dipendente comunale di VI livello con funzioni di coordinatrice economa dell’asilo nido, veniva, senza alcun provvedimento formale, spostata di sede e gradatamente esautorata delle sue funzioni e costretta a svolgere mansioni come ausiliario del traffico, appartenenti a qualifiche inferiori.

Le numerose visite medico-collegiali certificavano l’idoneità della predetta alle mansioni per cui era stata assunta, e seppur restituita all’asilo nido, non ne venivano precisate le mansioni.

Il Sindaco proponeva ricorso per cassazione, denunciando la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 323 c.p., eccependo che il provvedimento sindacale adottato era adeguatamente motivato in applicazione della normativa vigente, il dipendente può svolgere occasionalmente e ove possibile con criteri di rotazione, compiti o mansioni immediatamente inferiori, senza che ciò comporti variazioni del trattamento economico.

Il demansionamento della dipendente comunale, da economo e ragioniere presso l’asilo nido, a mansioni di prevenzione e di accertamento delle violazioni in materia di sosta, appare, osserva la Suprema Corte, è stato adottato dal Sindaco, in evidente violazione del disposto dell’art. 56 dlg.vo n. 29/93 sui dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e dall’art. 7 CCNL dei dipendenti degli enti locali recepito nel D.P.R. n. 593/93. Pur consentendo tali norme che un dipendente possa essere adibito a svolgere compiti di qualifica immediatamente inferiore, ne evidenziano, tuttavia l’occasionalità di tale destinazione e la possibilità che ciò avvenga con criteri di rotazione.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, l’avverbio “intenzionalmente”, che figura nel testo della norma incriminatrice, esclude la configurabilità del dolo sotto il profilo indiretto od eventuale, e richiede che l’evento costituito dall’ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall’agente e non già semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, in ipotesi diretta ad un fine pubblico, sia pure perseguito con una condotta illegittima. Ciò a patto che il perseguimento di tale fine non rappresenti un mero pretesto, col quale venga mascherato l’obiettivo reale della condotta.

Ne deriva che, per escludere il dolo sotto il profilo dell’intenzionalità, occorre ritenere, con ragionevole certezza, che l’agente si proponga il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio. Ipotesi esclusa dai giudici di merito, che hanno ritenuto indubbia la ricorrenza dell’intenzionalità dell’abuso in danno, sia per quanto dianzi rilevato, sia perché la reiterata condotta del Sindaco a destinare persistentemente la dipendente, piuttosto che altri , a svolgere le mansioni di ausiliario del traffico, appaiono costituire il suggello di tutta una serie di elementi caratterizzanti quel fenomeno sociale noto come “mobbing”: comportamenti tesi, nella fattispecie, a dequalificare professionalmente la parte lesa, tali da concretare oltre al reato di abuso d’ufficio, ad integrare altresì, l’illecito di cui agli art. 2043 c.c., essendo derivata, quale ulteriore conseguenza di detti comportamenti mobbizzanti, una seria patologia neuro-psichiatrica.

Attività amministrativa illegittima, prosegue la Corte, da cui è derivata, in una con la lesione dell’interesse legittimo in sé considerato, quella dell’interesse al bene della vita, che risulta meritevole di protezione, con conseguente risarcibilità del danno causato.